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Parasite foto4

Il virus siamo noi.

Ci voleva la Palma d’oro vinta all’ultima edizione del festival di Cannes per fare sì che un film sudcoreano venisse distribuito nelle nostre sale senza far passare qualche anno. Prassi abituale di questi tempi per i titoli provenienti dall’Estremo Oriente, come dimostrano i trattamenti miopi e tutt’altro che lusinghieri riservati a Mademoiselle di Park Chan-wook e Burning di Lee Chang-dong giunti in Italia fuori tempo massimo e in un numero di copie risibile e sconfortante. Con appena sette film all’attivo in vent’anni di attività Bong Joon-ho ha già dato prova di tutto il talento e dell’incredibile potenziale di cui è dotato. E a ben pensarci lo si poteva intuire già ai tempi del folgorante Barking Dogs Never Bite, commedia d’esordio (purtroppo sconosciuta ai più) folle e nerissima che ha più di un punto di contatto col suo ultimo lungometraggio, Parasite, che dopo la Palma d’oro punta dritto all’Oscar per il miglior film straniero.

La famiglia Kim – padre, madre e due figli – vive in un seminterrato fatiscente e si barcamena come può tra piccoli lavoretti. Un giorno il figlio, Ki-woo, riesce a ottenere una raccomandazione da un amico per prendere il suo posto come insegnante privato d’inglese di Da-hye, la giovane figlia dei Park, famiglia benestante proprietaria di una villetta moderna e lussuosa.

Chi conosce la filmografia di Bong Joon-ho sa bene che il cineasta coreano è da sempre interessato a indagare la natura umana attraverso l’utilizzo e il ricorso ai generi cinematografici più disparati: dal thriller di Memories of Murder, dove partendo da un fatto di cronaca nera degli anni ’80 si giunge a un atto di accusa nei confronti della società coreana, al monster movie di The Host, fino al cupo melodramma di Mother e alla fantascienza distopica di Snowpiercer. In Parasite Bong da principio utilizza i toni della commedia grottesca per analizzare e osservare, alla stregua di un entomologo, i meccanismi che regolano la società coreana, rigidamente suddivisa in classi (come lo erano i vagoni del treno ultratecnologico di Snowpiercer), coi poveri che vivono in basso, in seminterrati umidi e squallidi situati in sobborghi periferici e disagiati e i ricchi che risiedono in ville dotate di ogni comfort in zone esclusive e altolocate. I primi vivono con la testa all’insù, osservando e invidiando il benessere e il lusso dei secondi, che a loro volta si godono l’agio del loro status sociale di semidei, incuranti e indifferenti alle difficoltà e agli stenti altrui.

Se nei film precedenti Bong, da sempre improntato a una visione pessimistica dell’animo umano, si era sempre schierato dalla parte degli ultimi, in Parasite la sua critica alla società contemporanea si fa ancora più marcata e accentuata fino a non risparmiare nessuno, facoltosi o indigenti che siano. I primi, ben rappresentati dalla famiglia Park, sono impegnati a prendere le distanze dalle proprie radici e tradizioni e a perseguire un modello occidentale (l’ossessione per la lingua inglese e per la merce proveniente dagli Stati Uniti) che non appartiene loro mentre i secondi, ovvero la famiglia Kim, ambiscono e anelano al loro stile di vita, cercano di emularli e scimmiottarli. La famiglia di disperati a poco a poco s’insinua come un virus, un parasite, nella vita e nell’abitazione di quella agiata e facoltosa per consumarla e prosciugarla dall’interno, per cercare di prenderne il posto fino a far esplodere e deflagrare le tensioni e le contrapposizioni sociali, le differenze di classe. Per ottenere il loro scopo i componenti della famiglia Kim non esitano a liberarsi in modo machiavellico e ingegnoso dei vari collaboratori domestici dei Park senza mostrare alcuna empatia o solidarietà di classe nei loro confronti, per poi fantasticare e illudersi di subentrare ai proprietari, di ereditarne i privilegi sociali ed economici. Quando sono costretti a battere in ritirata – una delle scene più emblematiche e potenti – sotto un’incessante pioggia notturna, la loro sembra una discesa agli inferi, attraverso una serie infinita di gradini e scalinate che li conducono sempre più in basso, ricollocandoli al loro posto, nell’abitazione alluvionata e invivibile. Dal paradiso all’inferno nel giro di poche ore, dalla collina residenziale al seminterrato allagato e maleodorante. Come si evince da queste righe, nella seconda parte Parasite abbandona i toni lievi e brillanti per virare al nero e immergersi nel dramma, per trasformarsi in una tragedia greca moderna e sanguinaria dall’epilogo amaro e malinconico, con un finale arreso e ineluttabile a sancire la definitiva pietra tombale su una società malata, cinica e malsana che non ha pietà e non dà scampo a nessuno. Semplicemente impeccabile lo stile di Bong Joon-ho, magistrale la sua messa in scena, i virtuosismi tecnici, la padronanza della macchina da presa e dei suoi movimenti studiati al millimetro, il controllo totale di ogni aspetto, compresa l’efficace e sapiente sceneggiatura scritta insieme a Won Han Jin e l’ottima direzione di un cast in stato di grazia.

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Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.