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REVOLUTION OF OUR TIMES

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La Cina non è vicina.

Posto che l’Occidente democratico ha creduto per due decenni (in malafede) che Putin e la Russia fossero in fondo accomodanti, non dovrebbe commettere lo stesso errore con la Cina di Xi Jinping. Il documentario di Kiwi Chow che, dopo il passaggio semiclandestino a Cannes, è ora anche in Italia può infatti bastare per togliere di mezzo qualsiasi dubbio con le sue immagini che colpiscono al cuore. È chiarissimo: le promesse dell’intesa sino-britannica tra i premier Margaret Thatcher e Zhao Ziyang che portarono all’handover, il passaggio di consegne di Hong Kong del primo luglio 1997, sono state disattese e tradite. Il principio “Un paese, due sistemi” teorizzato da Deng Xiaoping all’epoca è stato violato. La legislazione liberticida sull’estradizione voluta e infine approvata con la complicità delle autorità di Hong Kong (l’ipocrisia della guida esecutiva, Carrie Lam, viene sottolineata non meno di quella della polizia e dello stesso Xi Jinping) ha segnato una frattura epocale. L’imponenza delle manifestazioni di piazza del 2019-20, due milioni di abitanti dell’ex colonia britannica su sette complessivi, dimostra che è stata varcata una linea rossa: il regime ha deciso di passare alle maniere forti, la Cina non è (più) vicina.

Se insistiamo prima di tutto sul discorso politico e sui messaggi forti e diretti, è perché i 152 minuti di Revolution of Our Times hanno soprattutto quell’intento. Scuotere. Scioccare. Ammonire. Questo è un documentario totalmente militante, alla stregua di Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom (2015); ma ancora di più è il resoconto di una presa di coscienza collettiva che vuole soprattutto mostrare come il virus più pericoloso, là in Cina e a Hong Kong, non sia il Covid, ma l’autoritarismo mascherato del governo di Beijing. Poco importa se la durata rischia di essere eccessiva e se ci sono maquillage registici che diluiscono a tratti la tensione (con un montaggio delle interviste che non è sempre incalzante come avrebbe potuto): anzi, si può dire che a fronte della durezza degli scontri di piazza, molti dei quali lasciano sbigottiti per il coraggio fisico di chi li ha filmati, non stonano affatto. Vedere la polizia che malmena i civili che protestano nelle strade dalle nostre parti non sconvolge più di tanto: in fin dei conti siamo avvezzi a questo almeno dai tempi del G8 di Genova. Ma vedere immortalate persino brutali aggressioni fisiche alla stampa (con le immagini della giovane giornalista embedded Gwyneth Ho che stava documentando la probabile saldatura tra polizia e gangster delle triadi: peraltro subito diventate virali), lascia abbastanza esterrefatti. Come l’uccisione deliberata di un manifestante da parte di un poliziotto che gli spara da una distanza ravvicinata (come viene ricordato per fare un paragone, ai rapinatori armati secondo la legge si spara al massimo alle gambe).

Cosa che forse più conta, e che più di tutto si vuole far passare nello svolgimento, è che si tratta di un movimento di popolo. L’organizzazione tattica viene di conseguenza e parte del film, scandito in capitoli grossomodo cronologici, insiste sui preparativi e sulle strategie messe in atto per fronteggiare la polizia, spesso con l’abile uso della rete internet. O sulle migliaia di messaggi lasciati sui Lennon Wall di Tai Po Market o di Austin o a Kowloon. O ancora sulla chiarezza cristallina delle cinque richieste dei manifestanti: ritiro della legge sull’estradizione, ritiro della definizione di sommossa, rilascio e libertà dalle accuse dei fermati, commissione d’inchiesta sulle azioni della polizia, dimissioni di Carrie Lam e libere elezioni a suffragio universale del LegCo, l’assemblea legislativa. Tutto il contrario di qualcosa di improvvisato, benché qui e lì facciano capolino i rimpianti per non aver agito diversamente in alcuni frangenti.

Di certo, colpisce che moltissimi dei giovani intervistati ai tempi del ritorno di Hong Kong alla Cina non fossero neppure nati. E tra i combattenti e i resistenti si annoverano tanti minorenni (come nell’assedio al Politecnico) e addirittura ragazzini di 11 o 12 anni. Ecco perché la definizione di Hongkongers è calzante: se prima – è la tesi – questa parola nemmeno esisteva davvero, adesso sarà impossibile non fare i conti con questa forza. Anche se il dilagare del Covid ha bloccato le manifestazioni pubbliche. Anche se molti partecipanti hanno dovuto fuggire (non mancano le dichiarazioni di esuli, specie a Taiwan, che è tra le più dirette interessate ai moti di Hong Kong e al comportamento della polizia e del governo). E anche se la repressione poliziesca è così forte che, per protezione, alcuni protagonisti sono stati sostituiti da attori e altri indossano maschere, mentre chi ha lavorato al documentario è spesso nascosto da uno pseudonimo nei titoli di coda. Come sovente avviene in casi come questi, passano in secondo piano i valori artistici e culturali o le differenze di approccio e idee: il grido della strada e di un intero popolo, gli Hongkongers, è solo uno: Liberate Hong Kong, Revolution of Our Times. Non c’è un’immagine altrettanto emblematica, in questo film, come quella dell’uomo disarmato davanti al carro armato di Piazza Tienanmen. Ma sarà lo stesso il caso di ascoltare, prima di finire ancora distratti e (infine) conniventi.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.