Il Mito della Formula Uno ‘as you know him’.
Revisionismo? Affatto. Nella lettura che Asif Kapadia (con la produzione dello specialista Kevin Macdonald) ci offre di Ayrton Senna, leggenda vivente della Formula Uno a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, non c’è spazio per i ripensamenti sul mito di un pilota diventato in pochi anni l’orgoglio di un’intera nazione, il Brasile.
Non sarebbero nemmeno stati possibili forse, visto che alcuni tra i materiali di repertorio di cui il documentario è ricco vengono direttamente dalla famiglia del pilota. Non è che siano assenti gli spigoli e i lati oscuri, peraltro: tutta la rivalità con Prost, che portò ai due famigerati scontri del Gran Premio del Giappone, nel 1989 e nel 1990 (il primo risoltosi a favore del francese, il secondo del brasiliano, che vinse così il secondo dei suoi tre titoli mondiali), è resa senza troppi scrupoli agiografici. Il Senna che torna ai box dopo aver vinto il campionato 1990 grazie a una collisione apparsa come una maligna vendetta per la sconfitta subita l’anno prima, ha negli occhi più tristezza (e forse vergogna) che felicità. E la regia ha cura di sottolinearlo, per rendere chiaro che l’attrito con il Professore e con la FIA retta a quei tempi dal discusso Jean-Marie Balestre dovevano aver lasciato molta amarezza e risentimento nell’animo di colui che da molti è considerato semplicemente il più veloce pilota mai esistito (a un certo punto si dice che il suo stile poteva essere definito in un modo solo: “fast”, veloce, appunto).
Ma se ce la cavassimo con il mero fatto sportivo, adducendo ad esso e alle memorie che quest’ultimo suscita in chi è abbastanza adulto da avere seguito in diretta la carriera del pilota la buona riuscita del film, non faremmo di certo molto; anzi, faremmo nulla. Perché è assodato che l’astro di Senna è tra i più alti dello sport mondiale di sempre, fra l’altro attraverso una personalità ben diversa e assai più schiva rispetto ad altri pesi massimi come Michael Jordan o Carl Lewis (per non citarne che due della stessa epoca), tanto carismatici quanto, spesso, eccessivi negli atteggiamenti e persino nel look. Ma Senna era così: gli altri grandissimi ipnotizzavano le folle, lui le macchine da corsa, che portava sempre oltre il limite creduto possibile (si pensi alla Toleman guidata a inizio carriera e portata a risultati incredibili). Come un brasiliano con il pallone, ma senza il preziosismo fine a se stesso di troppi assi del calcio. Ed è naturale allora che un documentario come quello di Kapadia finisca per essere contaminato da questa “semplicità” del personaggio percepito (per quello reale, speriamo di vedere qualcosa di più profondo in futuro), a suo modo un profeta cortese, in un’era dell’automobilismo dominata da tante personalità vulcaniche e vincenti (campionissimi quali Prost, Piquet, Mansell hanno tutti corso contro Senna in quegli anni). Azzardiamo: se Senna (il film) è bello, è perché è il documentario che potrebbe avere girato non il fan della Formula Uno o il tifoso sfegatato di Ayrton, ma un estraneo affascinato dalla personalità (oltre che dalle imprese) del pilota brasiliano e deciso a non dissipare il suo mistero (nemmeno esibendo troppo la religiosità di Senna), dichiarandosi infine incantato di fronte – sic et simpliciter – alla sua umanità.
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