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STRANGER THINGS – STAGIONE TRE

STRANGER THINGS – STAGIONE TRE

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L’età imperfetta.

Per i tanti estimatori e fan l’attesa per la terza stagione di Stranger Things è stata lunga e sfiancante, Netflix e i fratelli Duffer si sono presi oltre un anno e mezzo (la seconda annata era uscita a fine ottobre del 2017) prima di riportare a Hawkins il loro pubblico e proseguire la storia di Will, Mike, Dustin, Lucas, Undici e il resto della comitiva. I ragazzini stanno crescendo, sono diventati degli adolescenti alle prese coi primi amori, mentre fratelli e sorelle maggiori cercano di barcamenarsi e farsi strada nel mondo del lavoro, decisamente arido e privo di stimoli e soddisfazioni.  Siamo nell’estate del 1985, circa un anno dopo la conclusione degli avvenimenti narrati nella seconda stagione. Mike e Undici stanno insieme, il capo della polizia Jim Hopper, ormai padre putativo della ragazza, non approva la loro unione, così come il resto del gruppo che si sente tradito e trascurato dai due, soprattutto Will, l’unico dei quattro amici che sembra non aver voglia di crescere ed entrare in contatto con l’universo femminile. Anche Hawkins sta cambiando, la cittadina si sta trasformando a causa della nuova apertura di un grande centro commerciale, lo Starcourt, che sta provocando la chiusura di molti negozi e locali storici. Mentre fervono i preparativi per la festa del 4 luglio dal Sottosopra riemerge il Mind Flayer in una nuova, terrificante, versione.

Uno dei leitmotiv di questa nuova stagione, scritta e ideata dai fratelli Matt e Ross Duffer che l’hanno anche diretta per metà (quattro episodi, i primi e gli ultimi due), sono le continue incomprensioni, i litigi e le scaramucce tra i personaggi maschili e quelli femminili, tra le giovani e meno giovani coppie – Mike e Undici, Lucas e Max, Joyce e Hopper – che si sono venute a formare o stanno per nascere. Si tratta di uno dei punti di forza della terza stagione, che riprende e rielabora con intelligenza i meccanismi tipici delle commedie romantiche e sentimentali degli anni ’80 e presenta una coppia-non coppia destinata a emergere su tutte le altre nel corso degli episodi. Ci riferiamo al duo formato da Steve, un Joe Keery che migliora di stagione in stagione, e Robin, una delle new entry di questa annata interpretata da Maya Hawke, figlia di Ethan e Uma Thurman. C’è anche l’inevitabile dazio da pagare al #metoo, con la sottotrama di Nancy impegnata a farsi valere e ascoltare all’interno della redazione dell’Hawkins Post, dove viene costantemente derisa e sottovalutata dai colleghi maschi, un branco di uomini ottusi, stolti e arroganti.

I fratelli Duffer proseguono sulla scia delle prime due stagioni, hanno in mano una formula rodata e vincente, ripropongono – con qualche piccola variazione e un sostanziale cambio d’ambientazione che ha come location principale lo Starcourt Mall – la struttura narrativa che ha reso la serie così popolare e amata a livello internazionale, compresi gli innumerevoli rimandi e omaggi al cinema, ai fumetti, alla musica e alla cultura pop degli anni ’80. Stavolta però i continui ammiccamenti e le ripetute strizzate d’occhio a quel decennio da cui sembra impossibile allontanarsi, non producono lo stesso effetto. La formula dei Duffer inizia a mostrare il fiato corto, emerge qualche falla che fa intravedere qualche cenno di stanchezza. Gli sviluppi narrativi sono meno fluidi e avvincenti rispetto alle prime due annate, la storia principale risulta meno efficace e appassionante, troppo ripetitiva e ridondante nel suo incedere (si pensi a quante volte nel corso della stagione vediamo Undici bendarsi per utilizzare i propri poteri e cercare il mostro o altri personaggi).

Non mancano i momenti ironici e divertenti, se non impareggiabili e irresistibili come la sorprendente citazione da La storia infinita, o gli omaggi affettuosi a Ritorno al futuro, che usciva nelle sale americane proprio nell’estate del 1985, e a Il giorno degli zombi di Romero, distribuito sempre nello stesso periodo, che i ragazzi vanno a vedere al centro commerciale nel primo episodio. Se le prime due stagioni erano molto kinghiane e spielberghiane, la terza si sposta su territori e atmosfere carpenteriane, col Mind Flayer impegnato a prendere possesso dei corpi e delle menti degli abitanti di Hawkins, per servirsene e usarli in un modo che ricorda sia Il Signore del male che La cosa ma anche L’invasione degli ultracorpi, il classico di fantascienza realizzato negli anni ’50 da Don Siegel che ha avuto poi svariati rifacimenti. Le citazioni non finiscono qui, giusto ricordare il piccolo omaggio a The Blob, altro cult sci-fi degli anni ’50, rifatto proprio negli anni ’80, e a Terminator, col cattivone russo interpretato da Andrey Ivchenko che nei modi e nell’abbigliamento sembra quasi un clone di Arnold Schwarzenegger nel film di James Cameron. Questa terza stagione riprende infatti uno dei caratteristici topoi in voga nel cinema americano di fantascienza tra gli anni ’50 e ’80, in piena guerra fredda, ovvero l’Unione Sovietica vista come principale minaccia e fonte di tutti i mali (in un dialogo si cita anche Alba Rossa di John Milius, altro titolo immarcescibile degli Eighties incentrato su un’immaginaria invasione degli Stati Uniti da parte dei sovietici).

Si arriva al termine della stagione con qualche perdita dolorosa – ma occhio a non perdere i titoli di coda dell’ultima puntata! – e con un addio o un più che probabile arrivederci alla quarta (e ultima?) annata che pare già confermata, visto il clamoroso successo della terza che ha già registrato oltre 40 milioni di visualizzazioni nei primi quattro giorni. Si chiude in bellezza, con due episodi finali che risollevano e ridestano l’attenzione dello spettatore ma che non bastano, purtroppo, a considerare pienamente riuscita questa terza stagione, un’annata interlocutoria e di transizione, come quella attraversata dai giovani protagonisti alle prese coi cambiamenti e con le fragilità tipiche dell’adolescenza.

voto_3

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.