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STRINGIMI FORTE

STRINGIMI FORTE

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Il coraggio della diversità.

Mathieu Amalric non è un novellino e non è un parvenu. Come attore ha lavorato, citando alla rinfusa e senza pretesa di ricordarsi di tutti, con Ioseliani, Assayas, Deplechin, Téchiné, Resnais, Spielberg, Polanski, Ruiz. Come regista è addirittura all’ottava prova e, se dalle nostre parti pochi ne parlano (in modo peraltro un po’ sospetto: non sarà forse che non lo hanno proprio seguito né calcolato…?), è anche perché diversi suoi film non sono stati neppure distribuiti seriamente: e dire che Le Stade de Wimbledon viene dal romanzo d’esordio, il più celebre, di Daniele Del Giudice.

Questo suo ultimo Stringimi forte non pare destinato ad avere molta maggiore fortuna dei precedenti, non soltanto perché è stato presentato nelle sale in un periodo infausto, a inizio febbraio con la situazione pandemica ancora molto incerta (mentre scrivo, il film sopravvive in una decina di sale o poco più). Il fatto è che Amalric non procede per risposte progressive, secondo le abitudini della stragrande maggioranza del pubblico. Stringimi forte inizia narrativamente come il sottovalutato Non torno a casa stasera (The Rain People, 1969) di Coppola, con una donna, Clarisse, in fuga dalla sua casa, dalla sua famiglia, dai suoi incubi. Ma poi prende strade tutte diverse perché per poter raccontare il mondo di una donna andata in pezzi si deve provare ad esaminare quei frammenti. Uno di quelli (almeno uno) è rivelatore, d’accordo, ci parla senza infingimenti del suo vero lutto, ci fa percepire il senso (faticoso: e potrebbe essere altrimenti?) di un’elaborazione della disgrazia. Che importa se anticipa il finale? Anzi, sarebbe proprio un colpo a effetto poco onesto con lo spettatore quello di giocare di suspense, di nascondere a bella posta quanto è successo fino alla fine. Per fortuna, Stringimi forte, tratto da un’opera teatrale di Claudine Galea, ha altre e più pesanti frecce da scoccare.

Fin da principio, il film di Amalric fa interagire e scontrare i diversi piani temporali e le sequenze, ma non li fa rimare tra loro secondo una tipica logica formalista. Il suo procedimento appare invece intenzionato a rompere lo schema, a far sì che – un po’ come accade nell’enjambement in poesia, ma in modo assai più radicale – non ci sia univocità tra sintassi e senso, tra ciò che si dice (si intende, si decodifica) e ciò che si scrive (o vede, nel caso del cinema). L’intera architettura del lavoro di Amalric viene così ammantata di un’apatia (il contrario dell’empatia, tanto invocata oggi, anche da noi, come categoria critica) che rimane singolare e inaffrontabile. Si dirà che le avanguardie hanno fatto ben di meglio, o peggio a seconda delle preferenze di ciascuno, e che Stringimi forte è solo il lavoro di un orecchiante, di uno che è andato a scuola dai registi giusti, ma non ha il loro talento e la loro capacità di far parlare l’immagine, di renderla rivelatrice. Eppure in tempi di ambiguità cercate e messe in posa, di personaggi e racconti esemplari (si pensi solo all’ultimo film di Guillermo del Toro, per esempio), Stringimi forte ha sempre il coraggio della diversità non per originalità (il film non è originale nel vero senso della parola), ma per costituzione e laconicità. Questo solo ha da dire, questo solo ha da dare e da mostrare.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.