Il maturo esordio da regista di Claudia Gerini.
Medice, cura te ipsum, dicevano un po’ di anni fa; perché è il proverbio che Gesù (Luca 4, 23) immagina possa essergli ricordato dagli abitanti di Nazareth quasi a esortarlo a compiere a Nazareth, sua patria, quelle azioni miracolose che si diceva avesse fatte a Cafarnao; ma Gesù replica all’obiezione con dolorosa amarezza: «nemo propheta acceptus est in patria sua» con riferimento, più che alla poco lusinghiera accoglienza fatta a lui dai Nazareni, all’atteggiamento generale degli Ebrei nei riguardi del suo messaggio. Oggi la frase si usa correntemente come invito a considerare e sanare i proprî difetti prima che quelli degli altri.
Non che Claudia Gerini sia andata così indietro nel tempo per debuttare dietro la macchina da presa, a venticinque anni esatti dal suo esordio come attrice (nel 1987 in Roba Da Ricchi di Sergio Corbucci), contemporaneamente producendosi in una delle sue prove più intense – negli ultimi anni, a memoria, l’ultimo film drammatico nel quale aveva recitato con un’emotività misurata ed eccellente è stato con A Casa Tutti Bene di Muccino. Basta pensare che la ricca e abbondante varietà di sfumature dei suoi occhi e delle sue espressioni come interprete l’ha creata davanti ad un green screen, senza contraddittorio per così dire: eppure restando viva e umana, vivida ed efficace, vibrante.
Tapirulàn è stato presentato in anteprima al Bifest, e adesso in sala mostra le sinceramente insospettate doti d’autrice della Gerini, che sta in scena dall’inizio alla fine e che letteralmente non si ferma mai. Non era scontato che alla sua opera prima riuscisse ad essere così asciutta, così centrata, così decisa in uno stile al servizio di una classica storia che, chiusa nelle quattro mura di casa, costringe a virtuosismi di macchina e di scrittura: virtuosismi che però non si notano, tanto fluidi sono i 100 minuti pieni del film che trova una sua quadra precisa nell’incastrare perfettamente la trama con le sue costrizioni, mentre racconta la pandemia che ci stiamo lasciando alle spalle e il lockdown con una declinazione parzialmente inedita. E Tapirulàn non si ferma neanche qui: perché la storia di Emma, psicoterapeuta ed e-counselor di nuovissima generazione che non esce di casa ma corre senza fermarsi mai, è una storia ricca di sfumature, di persone, di personaggi e di caratteri, che riesce a non strafare mai, a non eccedere nei toni che decide di usare, a cercare e trovare la strada migliore per raccontare un trauma che si specchia in mille traumi.
Emma corre, e Claudia Gerini le va dietro per cercare di rintracciare il suo orizzonte degli eventi, firmando il suo primo lavoro e mostrando la maturità raggiunta: una maturità di carattere e di mestiere, che si ritrova nell’assoluta modernità del racconto e del modo in cui viene messo in scena. Claudia mette Emma al centro, e intorno a lei fa muovere un mondo di emozioni che ruotano incessanti dando il ritmo ad una narrazione che sa inserire la tecnologia come elemento essenziale ma non sovrastante, con uno scarto continuo che fa ritornare al centro il cuore, l’anima, la pancia del racconto.
La drammaturgia (ricca e delicata) non dimentica mai l’aspetto tecnico e cinefilo: perché la regia gioca con le immagini, con il loro ruolo oggi, con la loro (apparente, su un set, ricreata) casualità che diventa causalità; gioca con il riverbero delle superfici, con la soluzione visiva filtrata che metaforizza l’incredibile doppiezza del valore delle immagini, richiamando suggestioni (lontanissime eppure vicine) da Black Mirror. Le metafore non si fermano però al film in sé, perché da contenuto divengono contenitore e Tapirulàn diventa lo specchio – ancora, il riflesso - del nostro oggi, una contemporaneità ineluttabilmente on demand, in un delivery continuo che sembra necessario ma non lo è. Running to stand still.
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