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Un esordio di grande maturità.

L’opera prima di Kantemir Balagov, classe 1991, arriva in sala in Italia ad agosto, in un numero irrisorio di sale, con due anni di ritardo sulla presentazione in Un Certain Regard a Cannes (dove quest’anno si è potuto vedere anche il suo secondo film, mentre la prima “italiana” di Tesnota fu al Torino Film Festival) e oltretutto doppiata. Difficile fare peggio sul piano della distribuzione, ammettiamolo, a fronte dello sbandierato e poco convinto Moviement dell’estate 2019; ma tronchiamo pure qui le lamentazioni, che del resto sono annose e non hanno mai prodotto nulla. Il conservatorismo italiano resiste a tutto.

Il film, dunque. Con Balagov abbiamo a che fare con un talento sicuro che sorprende per come si muove all’interno di una storia la quale, se non si può definire strettamente personale (ambientata com’è a fine anni Novanta), ha a che fare con luoghi vissuti e malesseri autentici. Di qui la scelta di inserire un breve commento di autopresentazione in voce over a inizio film: il giovane filmmaker sembra infatti riuscire nel trovare un’originale linea mediana tra l’autobiografismo tipico degli inizi e il racconto di una tranche de vie che come tale potrebbe avvenire in molti altri posti nel mondo. Questo dà a Tesnota un sapore forte e mai monocorde che trae origine dalla sua vicinanza agli uomini e alle donne del racconto, alle comunità che lo abitano: la closeness del titolo internazionale del film, correttamente rilevata da molti come architrave stilistica (il 4:3 e la preferenza per ambienti chiusi o limitati e stanze anguste – senza trascurare gli esterni – ne sono solo due degli elementi caratteristici e più in rilievo), ha un ulteriore termine di confronto nel corpo a corpo con i personaggi, la protagonista Ilana (l’eccezionale Darya Zhovner) per prima. Non è tanto una faccenda di pedinamento, affrettiamoci a chiarirlo: quanto della rara qualità di cogliere i punti di frattura di un paese, di un microcosmo familiare, di uno stile di vita, forse pure di un’epoca senza ricorrere alla pedanteria dell’intellettualismo, che romperebbe l’incantesimo.

Tesnota racchiude intatti in sé il fascino del racconto barbaro e l’esattezza di un utensile intagliato pazientemente a mano da un coriaceo artigiano. Le comunità rimangono chiuse, ma i vincoli che le legano internamente sono in subbuglio. I giovani assorbono solo il riverbero del peggio dei tempi (è il periodo tra la prima e la seconda guerra cecena e il montaggio dei video che passano sulla televisione nella sua casualità finisce per assumere spesso valore antifrastico). Tuttavia, non c’è un discorso che si sovrapponga alla vicenda. Il film del regista cabardo sfugge alle insidie del teorema (lo testimonia anche il finale aperto) ed è per questo che insistiti stratagemmi come le accensioni cromatiche e il controluce non risultano alla fine in accumulo e sovraccarico: e che una sequenza come la deflorazione di Ilana ha la giusta consistenza di azione di confine fra l’atto di sabotaggio e la riappropriazione del suo corpo (esito quasi paradossale) e della sua possibilità di scelta: contrappuntata dal potente primo piano – con il sonoro esagerato a bella posta – della mano dell’aspirante marito che maneggia la busta del denaro con cui la intenderebbe “comprare” come moglie.

Sono solo alcuni spunti per far capire come, in questo film che meriterebbe ben maggiore visibilità al pubblico d’essai, gli elementi del dramma si aggroviglino – pur nella linearità del racconto – per rimanere sospesi fino al termine in un magma ribollente che non offre soluzioni semplici. Questo giovane allievo di Sokurov (ma su Cineforum Lorenzo Rossi accenna in modo plausibile a paragoni con il cinema di Cristian Mungiu) ha conseguito a 26 anni un esito straordinariamente maturo. Attendiamo fiduciosi una conferma.

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.