Sign In

Lost Password

Sign In

THE ARMSTRONG LIE

THE ARMSTRONG LIE

Diretto Da: Durata: Con: Paese: Anno:

the-armstrong-lie10

La sconfitta è una bugia.

Non appare certo con l’abito del penitente, Lance Armstrong, nel documentario di Alex Gibney. Quello che è lampante, comunque la si metta, è che il ciclista non è certo pentito per il suo comportamento fraudolento. È soltanto un uomo che è stato “beccato” e, alla stregua di un criminale abituale, fatica a uscire dalla mentalità che lo ha nutrito per qualche decennio. Alla domanda di Oprah Winfrey se avesse mai pensato al fatto che stava imbrogliando tutti, Armstrong ha risposto candidamente di no. Non ha mai pensato di imbrogliare.

Il più grave scandalo doping di sempre (più del caso Ben Johnson, positivo alle Olimpiadi di Seul del 1988, e lasciando da parte il doping di stato dell’ex DDR) ha così un protagonista esemplare, un campione non solo in bicicletta, un vero e proprio “boss”. Puntualmente viene rievocato nel film l’episodio di Armstrong e di Filippo Simeoni del Tour 2004, quando all’italiano durante una tappa viene intimato con gesto eloquentissimo dal corridore texano di tenere la bocca chiusa sui rapporti con il medico Michele Ferrari: un gesto di spavalderia e protervia quasi malavitose. Quella che emerge però dal lavoro di Alex Gibney, documentarista appassionato ma non sempre sorvegliato, dagli esiti altalenanti, non è però un’accusa al “sistema” – e ciò malgrado le allusioni alle responsabilità dell’Unione Ciclistica Internazionale guidata da Hein Verbruggen (ancora oggi dirigente di successo e membro onorario del CIO) per tutti gli anni della carriera di Armstrong fino al 2005. In fondo si tratterebbe in quel caso di semplice corruzione di uomini, per quanto operante su vasta scala, e dunque di falle dovute ai limiti personali di dirigenti sportivi e persone dell’entourage del ciclismo. Ma non sembra che sia questo il bersaglio finale di The Armstrong Lie, benché l’opera a volte sembri mettere fin troppa carne al fuoco e prediligere un racconto che, a furia di accumulo, non ha nemmeno un centro preciso.

La genesi del film è in questo caso decisiva. Nato come lavoro sul campo, inteso come documentario su un ritorno alle competizioni che nelle intenzioni di Armstrong (e perfino dello stesso Gibney, tifoso quasi suo malgrado per l’impresa) avrebbe dovuto essere trionfale, per rivincere il Tour de France e dimostrare cioè che le sette vittorie consecutive (dal 1999 al 2005) non erano dovute al doping, The Armstrong Lie è costretto a mutare in maniera essenziale durante la sua realizzazione. Gibney mescola i piani temporali a seguito delle rivelazioni decisive sulle pratiche dopanti, saltando di continuo dall’Armstrong che tenta l’impresa (senza riuscirvi) di tornare vincitore a 38 anni di età, alle interviste posteriori alla confessione che tutto era stato una gigantesca frode. L’effetto è straniante, come se un’interferenza percorresse le due ore del film. Non basta la presa di distanza, Lance Armstrong continua ad esercitare un suo perverso fascino, come se una volta imbrattatosi della grandeur dell’ex campionissimo americano, Gibney non riuscisse più a fare a meno di celebrarne il titanismo, malgrado tutto. La cosa vale evidentemente anche per i comuni tifosi, se a un certo punto uno dei vari esperti intervistati chiarisce che “mentre per i colleghi Armstrong aveva ammesso poco durante la trasmissione con Oprah Winfrey, per i suoi supporter aveva viceversa detto troppo, e per questo erano inferociti e delusi”. La fine di un sogno (quello di un campione nello sport e nella vita, un miracolato dedito alla beneficenza con la sua fondazione contro il cancro) non coincide con il ritorno a un sano realismo (come poteva Armstrong essere l’unico ciclista pulito, se quasi tutti i suoi avversari erano stati coinvolti in casi di doping?), ma con il desiderio di negare la realtà emersa. Tra la verità senza sconti e una bella storia, prevale la seconda, come in L’Uomo che uccise Liberty Valance. Già questo dà da pensare: non era solo l’atleta a voler celare a tutti i costi l’inganno.

Tuttavia c’è ancora di peggio in The Armstrong Lie. E ha a che fare con una sorta di confusione che emerge di continuo nelle parole di Armstrong. Per un verso è evidente in lui la distorsione provocata dall’estremizzazione del messaggio del Sogno Americano. Arrivare in cima, primeggiare, è l’unica cosa che conta, e bisogna tendervi fino all’ultimo. Tutto il resto è fallimento. Per un altro verso, una volta caduto nella polvere, il ciclista si difende sostenendo di non sapere che cosa la gente penserà di tutta la sua vicenda tra 20 o 50 anni. Si comporta cioè come se retrospettivamente potesse avere ragione, ed è chiaro che la cultura in cui è cresciuto – quella, per l’appunto, dell’affermazione a tutti i costi – agisce in lui addirittura nel negare la possibilità della sconfitta, come se non ci fossero limiti alla vittoria, come se prima o poi il fallimento fosse destinato a tramutarsi in un risultato comunque positivo. Armstrong, in altre parole, si concepisce soltanto come vincente, ritenendo la sconfitta una bugia. E appare perciò come un personaggio tragicamente imprigionato nella mentalità di tutto un mondo, al di fuori della quale sembra non esserci alternativa. È un filo rosso che si può rintracciare in altri film sportivi (in senso lato) americani recenti, dal ferreo e spaventoso Foxcatcher, in cui l’orrore è nel cuore stesso del sogno, al più sbiadito Everest, in cui l’alpinismo estremo “di massa” è visto solo nell’opportunità di raggiungere il vertice, non nell’incertezza della discesa e della (sempre possibile) caduta: e le imprese straordinarie sono ormai tranquillamente e assurdamente consigliate alle folle, in un cortocircuito dagli effetti terribili.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.