Sign In

Lost Password

Sign In

FD foto3

Il controverso ultimo film di Wes Anderson.

Nel suo ultimo film, come mai aveva fatto in passato, Wes Anderson amplia il respiro narrativo, rifacendosi alle vertigini tra vero e falso radicate nella narrativa americana legata al post-modernismo, da John Dos Passos a Thomas Pynchon. Dal primo prende la divisione in capitoli che serve ad unire stili di prosa diversi (in questo caso, ogni storia è legata a un articolo proveniente da un autore e da un argomento); dal secondo la voglia di ricreare il passato attraverso un sistema di riferimenti culturali spesso inesistenti ma verosimili. Ma se Pynchon lo fa per scavare tra le pieghe della Storia intrecciandola con l’elemento narrativo per antonomasia della postmodernità (la cospirazione), il discorso di Wes Anderson stavolta è davvero solo un accumulo di elementi, confezione ed effetto sorpresa.

Metto le mani avanti: non sono di quelli che accusano Wes Anderson di sterile formalismo. Tra gli altri, Moonrise Kingdom è un mio cult e L’isola dei cani l’ho indicato nella top ten di questo sito qualche anno fa. Solo che, già dal precedente live-action Grand Budapest Hotel, cominciò a balenarmi il sospetto di un accademismo improduttivo, dove troppa è l’importanza data alla confezione e al riempimento del quadro di oggetti per saturare lo sguardo, molta meno invece ne viene data ai personaggi, fermi ai loro stereotipi e alle loro semplici funzioni narrative. Se quel film mi è rimasto quindi nella memoria come l’ipertrofico punto di arrivo all’interno di un percorso personale, quelle sensazioni si sono purtroppo ripresentate durante la visione del suo ultimo The French Dispatch.

Si pensi alla quinta inquadratura (escluso il titolo del film e la pagina del caporedattore) che è una chiara citazione da Mio zio (1958, Jacques Tati) ma che, come qualche storico ricorderà, era già stata citata in L’idolo delle donne (1961, Jerry Lewis): è la conferma che The French Dispatch è solo nominalmente ambientato in Francia e che la sua appropriazione da parte dello spettatore deve passare attraverso la Storia statunitense ignorando quella transalpina, riducendo quindi il luogo a un mero contenitore di stereotipi. Salvo l’iperbolica e sovraccarica trama spionistica, non è un caso che il riferimento più centrato sia forse quello del protagonista del terzo episodio, ispirato a James Baldwin, depurato però della carica sovversiva del grande intellettuale americano. Perlopiù citato in un periodo, quello attuale, in cui il personaggio di colore è d’obbligo in ogni produzione hollywoodiana e proprio quando è in atto la sua riscoperta, non dicendo quindi nulla di nuovo su di lui e sulla sua condizione (salvo in un brevissimo monologo, anche poco originale).

Questo rende tutto ancora più complicato quando in campo ci dovrebbero essere questioni come idee e politica. Non capisco come si possa alludere, mi riferisco al secondo episodio, alle rivolte studentesche del ’68 senza citare (parlo da ignorante) uno qualsiasi tra Godard, Langlois, Aragon o Sartre: e la parola “gauche” è totalmente espunta dal vocabolario dei personaggi. Qui la rivoluzione è timidamente sessuale (l’ossimoro è voluto) e la confusione che guida l’intera operazione è lampante quando il vettore narrativo di tutto è un personaggio chiamato Zeffirelli ma qualsiasi perché a proposito di questa scelta rimane inevaso. Bastano le pile di libri appoggiate al suolo per ricreare i tempi de La Cinese? Tra le canzonette d’epoca, è assente anche Mao Mao. Confesso che alla comparsa dei due giovani con la maschera anti-gas ho avuto un brivido: che Wes Anderson stesse citando Marie pour memoire, film underground di Philippe Garrel, uno dei più disperati sulla crescita nella Parigi del ’68? Ma è un riferimento troppo esoterico che cozzerebbe con l’impianto generale del film.

L’esclusione di tutti questi elementi è facilmente giustificabile. Da un lato, leggiamo i film attraverso il mito romantico che il regista sia il solo autore (quindi, Wes Anderson = inquadrature simmetriche, perfezione cromatica, ecc ecc) dimenticando che prima del suo nome viene il logo della casa di produzione. La succursale della Disney (Fox Searchlight) che ha finanziato il film è la stessa che ha prodotto l’opera midcult dell’anno, Nomadland, in cui compaiono Amazon e i suoi dipendenti: messa in scena come un’azienda americana qualsiasi dove ci si licenzia per questioni che non hanno niente a che vedere con lo schiavismo per cui il colosso è tristemente noto. D’altro canto ogni film ambientato nel passato è in realtà uno specchio del presente e The French Dispatch sembra riflettere a pieno il clima post-ideologico e culturalmente approssimativo nel quale viviamo. Con la Storia ridotta a supermercato di segni e Parigi ritratta come un paese dei balocchi e succursale di Kansas City.

voto_2

Avatar
Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.