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THE WOMAN WHO LEFT

THE WOMAN WHO LEFT

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Premessa: la seguente recensione è stata scritta a settembre. Avrei voluto rivedere il film per un’analisi più approfondita perché è un opera di rara densità, che non si esaurisce a una sola visione ma ha tantissimo da dire. Ciò non è stato (e probabilmente non sarà) possibile dal momento che è molto dubbio che il film avrà mai una distribuzione in Italia: tocca sperare nel mercato home video straniero. Gioiranno sicuramente quelli che hanno deriso aprioristicamente Lav Diaz perché ritenuto ammorbante, inutile o semplicemente adducendo la scusa “ars longa vita brevis”. Ma il film sarebbe anche una lezione di cinema a chi pensa che il futuro delle opere (razzisticamente etichettate come) “d’essai” sia rappresentato da roba mediocre come Toni Erdmann o i prossimi film di Lars Von Trier e Gaspar Noè.

Al centro di The Woman Who Left (ambientato nel 1997, l’anno in cui Hong Kong smise di essere una colonia britannica) ci sono gli emarginati: oltre alla protagonista Horacio, ci sono un venditore ambulante e un gay travestito, entrambi violentati in periodi diversi nelle loro vite. Accomunati dalla solitudine, essi non hanno altro che se stessi e il loro corpo (e a volte nemmeno quello): infatti l’omosessuale, nei momenti di disagio, sfoga la sua tensione danzando, un gesto tanto frivolo quanto utile a scacciare i suoi pensieri e a far sorridere il prossimo, senza doversi preoccupare d’altro. La solitudine si palesa anche in alcune situazioni simboliche, come la prigionia iniziale che è la condizione esistenziale di Horacio, una reclusione dentro se stessa che la donna sfogherà in modi antitetici tra loro: da un lato soccorrendo l’amico gay e dall’altro tentando di vendicarsi di Rodrigo, una sorta di malavitoso locale. Il suo sguardo, quando in casa si allena con la pistola, è il riassunto di un intero personaggio, che porta con sé la disperazione di un mondo che cerca e ormai sta svanendo, come svaniscono le grandi personalità che muoiono annunciate dalla radio durante il film: muore Versace e poco dopo muore anche Maria Teresa di Calcutta. Un mondo in transizione, che sta perdendo le proprie cordinate, in cui un morto famoso vale l’altro, anche se altrove (vicino, a Hong Kong) riesce a staccarsi dai propri padroni, un po’ come vorrebbe fare Horacio con Rodrigo. Quest’ultimo personaggio dà lo spunto a Lav Diaz per imbastire un suo discorso sulla mercificazione della fede: non c’è nulla di sacro nelle sequenze girate in chiesa, durante le celebrazioni il popolo ascolta mestamente (Horacio addirittura da fuori) e Rodrigo si confessa ridendo e scherzando col prete locale (la mercificazione è una conseguenza di questa desacralizzazione). Tutto questo tenuto assieme da una struttura circolare: Horacio insegnava in carcere e insegna anche agli sfollati. Nulla di più pessimistico, dal momento che le sue lezioni si aprono con una lettera che descrive una casa in declino: quella certezza del tetto che almeno c’era in carcere, una volta liberi la si perde.

L’opera di Lav Diaz non somiglia a nulla che i nostri occhi abbiano già visto: in un periodo in cui tutto è copia o persino sterile provocazione, un’ennesima dimostrazione del suo genio per lo spettatore sta nel trovarsi di fronte a un film che assomiglia più a un classico della letteratura (magari russa, il regista ha ammesso che il film trae ispirazione da un racconto di Tolstoj). Questo dovrebbe eliminare tutte le squallide chiacchiere da cortile sulla durata e la distribuzione, viceversa bisognerebbe gioire per un Leone d’oro dato a uno dei suoi film più accessibili. La grandezza di questo autore sta soprattutto nel rispetto che mette nel descrivere i personaggi, nel modo in cui ci fa empatizzare e ridere con loro, spesso cogliendo anche attimi di estremo dolore: il regista sa cosa mostrare e cosa evitare (la morale dello sguardo è sempre stata un suo grande pregio, nonché un fondamento della sua poetica); non vediamo alcuno stupro in The Woman Who Left (a differenza di quanto accadeva in Century of Birthing), ma gli spasmi del gay dovuti all’epilessia mettono lo spettatore davanti a qualcosa che un tempo si sarebbe chiamato “osceno”, l’uomo prossimo alla perdita del suo corpo (e quindi alla morte). Il tutto, appunto, mostrato con rara sincerità e senza abbellimenti. Si è parlato tanto della durata dei piani-sequenza di Lav Diaz, ma la coordinata fondamentale è lo spostamento del punto di fuga, lo spaesamento dell’occhio dello spettatore che ad ogni taglio di montaggio è costretto a cambiare la linea dello sguardo per seguire i personaggi o ammirare i paesaggi, che risplendono nel maestoso bianco e nero. Il cambiamento di un paese si palesa, dilatando i tempi e con la contrapposizione tra i macchinari che costruiscono nuovi edifici e un’umile baracca dentro la quale si consuma del cibo. E lo stile del regista è cambiato (seppure di poco) rispetto ai film precedenti, la prima ora ha pochi tempi morti e il découpage annovera più inquadrature all’interno di una singola sequenza: il che non significa piegarsi a una regola dettata dal mercato, è invece la dimostrazione della maggior padronanza di quello stile che lo porta ad possedere una capacità di sintesi che qualche volta era mancata nelle opere precedenti. Il magnifico plongée che chiude il film risottolinea tutti i concetti chiave dell’opera: la vita è come un cerchio, saremo sempre alla ricerca di qualcuno, ma ritorneremo ciclicamente alla nostra solitudine perché sempre saremo soli.

voto_5

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.