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“Non mi piace quella faccia, Mav”.

“È l’unica che ho”.

Quasi tre anni fa, il 18 luglio del 2019, veniva rilasciato il primo, attesissimo, trailer di Top Gun: Maverick, il sequel di uno dei film più popolari e iconici degli anni ‘80, nonché uno dei titoli manifesto della famigerata Reaganomics. Il film sarebbe dovuto uscire nel corso del 2020, ma è rimasto bloccato per ben due anni a causa della pandemia. Top Gun: Maverick appartiene dunque a un’altra era, quella pre-pandemica, e al contempo guarda a un’altra epoca, ovvero agli inflazionatissimi anni ‘80 che furono testimoni dell’ascesa e della consacrazione di Tom Cruise, divo ormai prossimo ai sessant’anni (li compirà il 3 luglio) che ha saputo resistere al logorio e all’usura del tempo mantenendo alta la sua stella nel corso degli ultimi quarant’anni (e scusate se è poco). Venuto a mancare Tony Scott (a cui il sequel è dedicato), morto suicida una decina d’anni fa e artefice nel 1986 dell’incredibile successo di Top Gun insieme al produttore Jerry Bruckheimer, la regia di questo secondo capitolo è stata affidata a Joseph Kosinski, che aveva già diretto Cruise in Oblivion. Il film di Kosinski, prodotto nuovamente da Jerry Bruckheimer insieme a Cruise e a Christopher McQuarrie, che risulta anche tra gli autori dello script oltre a essere il regista degli ultimi due Mission: Impossible e del prossimo (e ultimo) capitolo della saga – Dead Reckoning – in uscita in due parti nel prossimo biennio, si inserisce perfettamente nel nuovo trend hollywoodiano, ovvero nel filone dei requel, termine coniato di recente nell’ultimo Scream, definizione quantomai azzeccata per tutti quei progetti che si collocano a metà strada tra reboot e sequel. Maverick sembrerebbe arrivare fuori tempo massimo, a distanza di 36 lunghissimi anni dal film originale che contribuì in maniera fondamentale a lanciare Cruise nell’Olimpo hollywoodiano. Un’operazione rischiosa, perché potrebbe faticare a intercettare l’attenzione e l’interesse delle nuove generazioni, ma abbastanza comprensibile e cristallina se si considera la preoccupante crisi e scarsità d’idee che investe da tempo l’industria cinematografica statunitense. Ben vengano dunque i vari requel (il prossimo in ordine di tempo è Jurassic World: Dominion che riunisce e mette insieme i protagonisti della prima trilogia con quelli della seconda) in un momento così difficile reso ancora più complicato dalla pandemia che ha causato ingenti perdite al settore e un’emorragia di spettatori che non accenna a fermarsi: specie in Italia dove non si riesce a far tornare nelle sale una buona parte del pubblico che era solito frequentarle prima della loro chiusura forzata.

Verrebbe quasi da dire che il nuovo Top Gun si affida all’usato sicuro, andando a solleticare la curiosità di quelle generazioni di spettatori cresciute a pane e film anni ‘80, compreso il film di Tony Scott, divenuto ai tempi un instant cult nonostante (o proprio a causa di?) l’ideologia reaganiana e la solita, schematica e grossolana visione degli eroi americani sorridenti, fighi, oliati e palestrati contrapposti ai russi malvagi, ottusi e cattivi. I tempi però sono cambiati, adesso impera il politically correct, e i nuovi nemici e obiettivi da eliminare sono rappresentati da uno stato canaglia non meglio precisato e da un deposito di arricchimento di uranio. Toccherà proprio al capitano Pete “Maverick” Mitchell fare ritorno alla mitica scuola Top Gun per addestrare i migliori piloti, compreso Bradley “Rooster” Bradshaw, il figlio di Goose, il suo amico e compagno inseparabile, morto a seguito di un incidente di volo, per questa missione ad altissimo rischio.

Kosinski strizza da subito l’occhio ai fan del primo Top Gun, ne ripropone la stessa struttura, perfino lo stesso incipit con gli aerei in decollo sulle inconfondibili e trascinanti note di Danger Zone di Kenny Loggins e la medesima iconografia con Cruise in jeans, t-shirt bianca, giaccone e Ray-ban a cavallo della Kawasaki GPz 900 R. Al posto della rivalità Maverick-Iceman, con Val Kilmer che qui appare per pochi minuti nella scena più straziante e commovente del film, quella (molto più loffia) tra Rooster e Hangman; al posto della partita al rallentatore di beach volley con tanto di corpi sudati e oliati a dovere, quella di football americano in riva al mare voluta da Maverick poco prima della missione per fare squadra e fortificare il gruppo. E al posto della love story tra Cruise e l’astrofisica interpretata dall’indimenticabile Kelly McGillis sulle note di Take My Breath Away un amore più maturo e crepuscolare (senz’altro meno patinato, ma anche più anonimo e privo di alchimia) con Penny, nuova proprietaria del bar vicino alla base militare interpretata da Jennifer Connelly (totalmente sprecata visto il ruolo esile e incolore che le è stato affidato). Dal canto suo Tom Cruise, che ritroviamo al cinema a distanza di quattro anni da Mission: Impossible – Fallout, ce la mette tutta nel riappropriarsi della figura del super pilota scavezzacollo dall’istinto formidabile e insofferente alle regole. Se nei vari sequel, reboot o requel hollywoodiani gli eroi della prima ora tornano in scena per poi lasciare spazio ai nuovi e assai più giovani protagonisti, come accaduto di recente per la nuova trilogia di Star Wars, diverso è il discorso per Top Gun. Il potere divistico e il corpo attoriale di Cruise sono troppo marcati e ingombranti per cedere spazio ai nuovi personaggi, tutti abbastanza sciapi, anonimi e piatti per poterlo mettere in ombra. Top Gun è roba sua, vive del suo sorriso e del suo carisma nostalgico e malinconico, legato a un’altra epoca e a un’altra generazione. Dove il film centra il suo obiettivo e non sfigura al cospetto del film originale è nelle sequenze di volo, nelle battaglie aeree dai tempi perfetti e dal ritmo serrato, nelle spettacolari coreografie ad alta (e bassissima) quota. Kosinski riesce dunque a divertire e intrattenere il pubblico di riferimento (nelle prossime settimane vedremo se sarà ampio o meno) e a non far rimpiangere il film uscito nel 1986, complice una sceneggiatura più sobria e meno ideologica e patriottica (ci voleva poco), ma anche meno capace nel delineare e imprimere spessore ai nuovi personaggi, dai caratteri e dalle psicologie troppo poco delineate per tenere testa e reggere il confronto col vecchio Maverick e la sua faccia che, piaccia o meno, è l’unica che ha.

voto_3

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.