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TUTTI VOGLIONO QUALCOSA

TUTTI VOGLIONO QUALCOSA

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La celebrazione e insieme la fine della giovinezza.

Richard Linklater si conferma il regista americano che più ha saputo cogliere le impercettibili mutazioni dell’anima, che ha intercettato con maggior precisione i passaggi capitali della crescita e della maturazione della persona. La sua intera opera potrebbe essere classificata come un unico, colossale coming of age, dove i suoi personaggi sono seguiti e analizzati in un percorso “in divenire”. Dagli amanti per caso di Prima dell’alba, a cui è tornato con cadenza decennale, in Prima del tramonto e poi in Before Midnight, sino ad arrivare all’ambizioso Boyhood, dove questa ricerca sull’individuo si fa stile e messa in scena: in Linklater l’arte si fa vita e viceversa.

Certo, il regista texano, comunque sempre coerente anche in prodotti alimentari come School of Rock o Bad News Bears, non sempre ha mantenuto uno sguardo focalizzato e lucido, talvolta incappando in vezzi snobistici (il dittico Waking Life/A Scanner Darkly) e in tematiche parafilosofiche che si arrovellavano su se stesse. Non è il caso della sua ultima fatica, Tutti vogliono qualcosa. Traduzione letterale di Everybody Wants Some!!, titolo di un brano dei Van Halen contenuto nel loro terzo, bellissimo, disco, Women and Children First, datato 1980. E non a caso, proprio da una canzone, stavolta dei Led Zeppelin, prendeva il nome anche il secondo lungometraggio di Linklater, Dazed and Confused del 1993 (da noi La vita è un sogno), vero e proprio antecedente “spirituale” di questa sua nuova opera. Quello era ambientato nel 1976 e raccontava gli ultimi giorni al college di un gruppo di amici, prima dell’ingresso nella vita adulta. Questo si svolge qualche anno dopo, nel 1980, e si concentra su una matricola e sui tre giorni che anticipano i suoi studi e la vita al college. Là era la fine di una fase della vita, qua “l’inizio”. Due film forse diversi, ma legati tra loro da un filo sottile eppure inossidabile. E guai a vedere questo lavoro nell’ottica di una prova “minore”. Linklater si affaccia su questa finestra nella vita di un gruppo di energici adolescenti, giocatori di baseball vincitori di una borsa di studio, con una grazia e una leggerezza miracolose, rarissime nel cinema contemporaneo. Sembra che non succeda nulla, ma in realtà è la vita stessa a scorrerci davanti agli occhi, con i suoi cambiamenti più o meno invisibili. C’è la voglia di divertimento, utile ad allontanare l’amara consapevolezza di un periodo della propria esistenza che sta giungendo al termine. C’è l’eterna e inallontanabile competitività insita alla cultura Usa, quella rituale, che spinge a sfidarsi in qualsiasi ambito, dalla conquista delle ragazze ad una partita di ping pong, dai videogame sino a chi aspira più a lungo una canna. Ci sono i primi amori, quelli che nascono per caso e forse non si dimenticano più (come quello del protagonista Jake per Beverly, interpretata dalla rivelazione Zoey Deutch). C’è l’esatta fotografia di una generazione e soprattutto di un’epoca. Nulla da spartire con quella nostalgia da cartolina che c’è in prodotti (per citare titoli recenti) come il serial tv Vinyl o The Nice Guys, dove la ricostruzione degli anni ’70 è affidata al buon gusto e alle ricerche di qualche scenografo e produttore musicale: qui non ci troviamo di fronte alla nostalgia per un passato che non c’è più, ma alle esperienze di un autore che ha vissuto quegli anni sulla propria pelle e li restituisce sullo schermo con autenticità, come se ci trovassimo di fronte ad una pellicola realizzata alla fine dei ’70 e non ad una sorta di riflessione post-qualcosa sul tramonto di un’era. Come solo il sottovalutato e commovente Adventureland era riuscito a fare nell’ultimo decennio. Basterebbe pensare all’intelligenza con cui Linklater distilla i riferimenti alla cultura pop di quegli anni (Carl Sagan), o a come utilizza la musica, per farsi un’idea dell’insieme. Tenendo a mente che siamo nel 1980, quindi al crocevia caleidoscopico di diverse mode e caotiche tendenze musicali, il regista mescola nella sua straordinaria playlist il rock ‘n’ roll di Cheap Trick e Van Halen, la psichedelia dei Pink Floyd, così come l’inarrestabile avanzata della disco music (con la conversione al dance floor dei Blondie e dei Queen, ma pure Jermaine Jackson, la SOS Band, gli Hot Chocolate), le ultime avvisaglie del punk “tradizionale” con gli Stiff Little Fingers, così come i prodromi dell’hip hop con la celebre Rappers Delight della Sugarhill Gang – brano al centro di una delle sequenze più gustose del film – e mille altre cose (Devo, The Cars, Patti Smith, My Sharona dei The Knack…). La musica, l’amore per essa, è proprio il collante che tiene assieme le vicissitudini degli scalmanati protagonisti, perennemente in sottofondo, attorno ai personaggi, è la colonna sonora della loro esistenza che li accompagna in tre lunghe giornate di feste e scherzi come in una versione aggiornata, e un pelo più smaliziata, del classico American Graffiti.

Con Tutti vogliono qualcosa, Linklater realizza una delle sue opere più “libere” e felici, dove lo stile non sovrasta mai lo sviluppo narrativo o il pedinamento dei protagonisti, e in cui il regista è lieto di farsi “invisibile” e silenzioso, per mettere in scena ancora una volta, con grazia, divertimento partecipe (perché sì, questo è un film pure molto spassoso) e sensibilità, la celebrazione e insieme la fine della giovinezza. Una gemma rara che non ci si dovrebbe lasciar sfuggire.

voto_5

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".