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UN AFFARE DI FAMIGLIA

UN AFFARE DI FAMIGLIA

un affare di famiglia foto3

Il film Palma d’oro a Cannes.

Con Un affare di famiglia, Palma d’oro al Festival di Cannes, Hirokazu Kore-eda torna ad affrontare la dimensione intima che salda i legami di un gruppo familiare. Questa scelta è resa, dal punto di vista narrativo, escludendo innanzitutto dalla diegesi qualsiasi riferimento cronotopico. Siamo probabilmente nel presente, ma non c’è nessun elemento specifico che ci aiuti a desumerlo, inoltre viene evitato qualsiasi riferimento geografico (in quale paese del Giappone è ambientato il film?), proprio per consentire al regista di concentrarsi sulle singole storie dei membri che costituiscono questo nucleo, che a loro volta diventano piste narrative che si intrecciano e comunicano tra di loro.

Narrativamente, Un affare di famiglia è un film spaccato in due, segnato nella prima parte da due eventi fondamentali che costituiscono un forte inizio (l’adozione illegale di una bambina) e una fine (la morte della nonna) che fa ripartire il film nella seconda parte. Stare qui a chiedersi se Hirokazu sia più vicino a Yasujiro Ozu o a Mikio Naruse sono chiacchiere che lasciano il tempo che trovano e che poco dicono del film, soprattutto quando il linguaggio stilistico adottato dall’autore di Ritratto di famiglia con tempesta è decisamente globalizzato. Ma, almeno per sgombrare il campo dai soliti riferimenti alla macchina da presa ad altezza tatami, sembra più idoneo far notare l’eclettismo stilistico di Kore-eda, che dalle freddi ellissi dei primi lavori è ormai arrivato ad un tale magistero argomentativo che con un montaggio piano sa parlare anche ad una platea poco avvezza a inquadrature statiche e pochi dialoghi: la spaccatura narrativa di cui si diceva viene ancora una volta evidenziata con la dialettica del pieno (che simboleggia il calore degli affetti) e del vuoto (la perdita dei rapporti e lo sfaldamento del gruppo familiare). Nella prima parte le inquadrature sono sempre piene: gli oggetti nella casa di questa famiglia, quelli che che fanno da sfondo ai loro dialoghi, sono decisamente troppi e la lente della mdp li tiene perennemente a fuoco rendendo l’immagine piena, oppure i violenti rosa, che contrastano coi leggeri blu cobalto nelle sequenze all’aperto, nelle scene in cui Mayu Matsuoka si prostituisce (e cerca affetto). Il vuoto della seconda parte è rappresentato dalla forte presenza di primi piani su sfondo bianco per creare empatia sul loro dolore individuale.

Agli specialisti di Kore-eda, che (stranamente?) negli ultimi tempi in Italia riesce quasi sempre ad ottenere una buona distribuzione (ma in questo caso il massimo premio a Cannes gioca un ruolo verosimilmente determinante), spetta decretare il posto di quest’opera all’interno del suo ormai ben articolato disegno autoriale: resta il fatto che Un affare di famiglia sa parlare una volta ancora di sentimenti, senso della perdita e legami familiari (e non) con una bella dose di sincerità.

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.