Contro Sorrentino. Pro Sorrentino.
Va di moda odiare e stroncare Sorrentino. E va di moda esaltare e difendere Sorrentino. Lui probabilmente (e beatamente) se la ride: si sparli purché si parli, e intanto il suo film – in un weekend con poche novità appetibili, per carità – vola in testa al box office. Merito pure della discussione tra denigratori e difensori, non c’è dubbio. Volendo capirci qualcosa, ma reputando meglio non esibirci nel ruolo di ultrà (gioco a cui critici e cinefili non lesinano di partecipare, a volte scendendo sul livello degli spettatori da due film all’anno), abbiamo stilato un freddo campionario (come direbbe Elio) dei motivi per cui detestare il regista napoletano e la sua ultima opera e, subito dopo, di alcune ragioni per cui apprezzare il suo lavoro. Consideriamo per cominciare i “contro”:
1. Lo stile. Pomo della discordia perché i carrelli acrobatici, barocchi e voluttuosi di Sorrentino, così come le molte soluzioni di regia che escogita quasi di scena in scena sono innegabilmente belli, se presi a sé. Quindi la critica si concentra sull’enfasi, sul troppo che stroppia, sulla mania di iperbole del regista, proprio quella che fa immediatamente scattare il paragone con Fellini e, in automatico, senza nemmeno pensarci, il delitto di lesa maestà. “Costui osa, cinquant’anni dopo, fare il verso a La Dolce Vita (con La Grande Bellezza ovviamente, benché Sorrentino abbia negato la legittimità del paragone): ma come si permette?” Chiaro che con Youth – La Giovinezza non si aspettasse altro che il dagli al barocco, al narcisista, all’aria fritta: e le molte sequenze più o meno oniriche del film fanno il paio coi fenicotteri del precedente, in un eccesso di “cinema” che travalica sovente il limite del cattivo gusto.
2. I dialoghi. La leziosità vuota delle battute dei film di Sorrentino manda fuori di testa anche i più moderati: “Le vedi queste persone? Questa fauna? Questa è la mia vita. E non è niente” (La Grande Bellezza). “La leggerezza è un’irresistibile tentazione” e anche “Le emozioni sono sopravvalutate” o “Gli intellettuali non hanno gusto e io ho fatto tutto quello che potevo per non diventare un intellettuale” (La Giovinezza). Roba stucchevole, che si aggiunge ad altrettanto stucchevoli citazioni, da Stravinskij a Thomas Mann (l’albergo di Davos della Montagna Incantata), e che spazientisce in fretta. È vero che i protagonisti sono intellettuali o comunque persone di spirito, ma il loro understatement è posticcio e repellente quanto l’Hitler che Paul Dano interpreta a colazione tra lo stupore sdegnato degli ospiti dell’hotel di Youth.
3. La falsa poesia. Qui si potrebbe aprire un dossier di dimensioni colossali. L’onirismo la fa da padrone fin da L’uomo in più (ricordate la piovra che strappava il boccaglio al subacqueo nella magistrale sequenza dei titoli di testa?) e anche in Youth – La Giovinezza ce n’è a palate, dalla scena con Miss Universo e Fred Ballinger che s’incrociano sulla passerella in mezzo all’acqua alta fino a quella con lo stesso compositore che dirige le mucche in concerto. Come in This Must Be The Place, un po’ per tutti il film meno convincente dell’autore, la storia raccontata diventa evanescente, supponente e risaputa, qua e là addirittura querula. Si applaude magari al pezzo di bravura (il sosia di Maradona che si destreggia con una pallina da tennis) e si scuote la testa per la banalità di altri momenti che vorrebbero essere significativi, dalla sequenza con Madalina Ghenea che sfila nudissima senza degnare di uno sguardo i due vegliardi a quella con lo stesso Pibe de Oro che precisa orgoglioso e ingenuo di essere mancino, cosa che tutto il mondo sa.
Vediamo adesso i “pro”, resistendo alla tentazione di ribattere punto su punto all’elenco precedente:
1. La poetica. Un filo rosso attraversa il cinema di Sorrentino, ed è il tema della dissimulazione. Si nascondeva Titta Di Girolamo (Servillo), il protagonista di Le Conseguenze dell’Amore. Salvo essere colto, o meglio “scoperto” dal sentimento. E dietro una coltre di finto cinismo si nasconde lo stesso Fred Ballinger nella sua vacanza-allontanamento dalla vita (sarà un caso che entrambi i film si svolgano in Svizzera? paese della fuga quasi per antonomasia?). Per non parlare di Jep Gambardella e dell’Andreotti del Divo (sempre Servillo), maschere tragiche quanto personaggi discutibili e indecifrabili. Certo, Fred Ballinger (Caine) e l’amico-doppio-opposto Mick Boyle (Keitel) sono assai meno icastici dei personaggi menzionati sopra (e in questo i detrattori avrebbero ragione), ma ugualmente tragica è l’ironia che s’abbatte su di loro: tanto in declino e alla frutta (nelle stesse parole della sua attrice feticcio) è il regista, che però vuole girare a ottant’anni il suo capolavoro (e poi finisce come finisce), quanto sano e “involontariamente” giovane si scopre il direttore d’orchestra (che finisce al contrario di quanto vorrebbe finire).
2. Lo stile. Sorrentino come Oscar Wilde non resiste alla tentazione (della magniloquenza). Ma a ben guardare, spesso è più sorvegliato di quanto sembri. In molti degli scambi di battute tra i personaggi, posiziona la macchina da presa nella stessa posizione, appena alle spalle degli interlocutori, e di lì non la stacca, mediante campi e controcampi che quasi mai coincidono con soggettive, sguardi in macchina o altre “stranezze”. Ma se vuole sottolineare qualcosa, sa trovare soluzioni appropriate e incisive, non necessariamente enfatiche: dai primissimi piani (con dettagli dei visi) alle contre plongée ai carrelli in avanzamento che stringono sugli attori. L’effetto è garantito, e non a caso tutti capiscono quando si fa sul serio. E anche quando si cazzeggia: il video della pop star (l’inglese Paloma Faith nei panni di se stessa) che si rivela un incubo di Lena Ballinger (Weisz) è una palese frivolezza che toglie di mezzo la seriosità per qualche minuto. E del resto, come prendere sul serio una cantante-freak brutta, ma “brava a letto”?
3. I rischi. Un autore che osa confrontarsi in pianta stabile con storie molto diverse tra loro e nel segno del grottesco deformante non è certo un “arrivato” o un furbo amministratore della sua fortuna. Non teme di esaurirsi e sfida costantemente il pubblico, prova ne sia che i suoi sette film sono tutti diversissimi tra loro. Qualche volta gli è andata male (oltre al precedente film americano con Sean Penn en travesti, la critica ha storto il naso principalmente per L’Amico di Famiglia), ma la sua voglia di giocare con le storie è ben lontana dall’essere spenta. E fare un film che, mentre racconta la stitichezza della vecchiaia (in cui le emozioni sono come la pipì: ma questa non è una battuta di Ballinger) guarda al futuro senza preoccuparsi di vedere la morte avvicinarsi, e anzi scorgendo stupito la giovinezza, è sintomo di provocazione positiva, al pubblico e ai critici che credono di avvistare sempre lo stesso Sorrentino.
E adesso tiriamo le somme, decidendo con quali punti siamo d’accordo e con quali non lo siamo, per concludere con un voto. Sarà anche faticoso, e forse non indispensabile, ma anche noi, come diceva il divo Giulio, ne sentiamo la responsabilità.
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