Sign In

Lost Password

Sign In

1917 foto3

Il turgore della tecnica e l’umanesimo imbalsamato.

Gli elogi con cui 1917 è stato accolto, specialmente in America, fanno tornare alla mente il consenso ecumenico che Sam Mendes ottenne con la sua opera prima American Beauty ormai quattro lustri fa. Allora a colpire erano soprattutto i contenuti, adesso è la forma. In entrambi i casi, la superficie è risultata talmente ammaliante per il pubblico che tutti sembrano aver dimenticato la prudenza e finito per ripetere salmodianti le medesime cose, in lode di un’opera che “riconcilii Arte e Industria, Pubblico e Cinema” (1).

La forma di 1917, però, tradisce improvvidamente il progetto ideologico. Il carrello all’indietro con cui inizia dopo pochi istanti uno dei due piani sequenza “infiniti” che compongono il film (tralasciamo il fatto, in fondo irrilevante, che non siano veramente due) echeggia in chiusura l’attimo di riposo dell’eroico soldato Will Schofield, passato (non) indenne attraverso molti pericoli per salvare da una scaltra manovra dei tedeschi un intero battaglione di soldati inglesi. Non è, banalmente, un fatto di rima: ma di come l’effetto che ne viene sia che due ore di film lascino viceversa immune proprio quello spettatore che dovrebbe trarre una conclusione differente (nel senso di non indifferente) dalle vicende alle quali ha appena assistito. Detta nei termini della tripartizione della retorica aristotelica, a fare difetto al film di Mendes non sono il logos e il pathos, sui quali pure si può discutere, bensì l’ethos. 1917 si sottrae infatti ad un impegno che dovrebbe essere sempre salvaguardato trattandosi della Grande Guerra, ossia di una delle più immani e ingiustificabili carneficine di sempre, quasi dieci milioni di morti sui campi di battaglia senza contare i civili: giustificare lo spettacolo della morte e delle stragi con l’utilità delle lezioni apprese. Il film non si fa forte di un assunto didattico, nemmeno all’acqua di rose, ed è palese come non si appoggi ad una morale della visione, pur pretendendo di tenerne alta la bandiera. Più che ad insegnare, ad ammonire o a mettere in discussione, Mendes sembra sempre interessato a declamare (come nella corsa tra le bombe di Schofield verso il comando), ad esibire e testimoniare attraverso il suo virtuosismo stilistico l’esemplarità del coraggio, i valori dell’eroismo, la lealtà e la virtù dei soldati protagonisti. Si può anzi dire che il turgore della tecnica rappresenti il tronfio contrappeso dell’umanesimo imbalsamato che permea il film.

Non che questa sia una novità nel cinema di guerra mainstream ovviamente, ma la celebrazione appare quantomeno fuori luogo. Nel momento in cui il long take preme lo spettatore verso l’immersione totale nel viaggio dell’eroe dentro l’orrore (e molti hanno infatti architettato stizziti paragoni con i videogames), a svanire è tutto ciò che quell’immensa tragedia davvero la costituì, sopraffatto da una hybris che glorifica l’onnipotenza mimetica della macchina da presa e da un raccomodamento valoriale alquanto tradizionalista; mentre il fotorealismo materico del solito Roger Deakins funge da richiamo per chi vuole credere alla montatura della guerra raccontata da vicino, sporca e senza fronzoli, tra destrieri in putrefazione, reticolati, cadaveri e pozzanghere. Lontano dalla complessità di costruzione su più piani temporali di Dunkirk e incapace di arrivare anche solo per un momento all’altezza dello shock delle semi-soggettive con cui era costruito lo sbarco in Normandia di Salvate il Soldato Ryan – evocato del tutto a sproposito da una parte della critica -, 1917 ha in definitiva solo una carta da giocare (a parte il riferimento un po’ futile al 6 aprile 1917, data dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, da leggersi certo in ottica di ricezione oltreoceano): quella del patto ludico con lo spettatore che attende con ansia le successive stazioni del tragitto. La rinuncia all’ellissi non è però indolore e per provare a sfuggire alla monotonia della linearità, lo script di 1917 deve inventare snodi drammatici che spesso rimangono carenti di reale peso specifico (si pensi all’incontro con la giovane francese o all’intonazione nel bosco di I am a poor wayfaring stranger) e destinati a far risaltare ancora di più l’articolazione enfatica del percorso. Più che un’occasione perduta e al di là dei demeriti del regista, il film di Mendes appare alla fine più che altro come una scommessa che non aveva neppure molte chances di essere vinta.

(1) Così si esprimeva Alberto Pezzotta su [Duel] 77, “American Happiness” pag. 33, febbraio 2000 a proposito del film con Kevin Spacey e Annette Bening.

voto_2

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.