THE ZERO THEOREM

(Regia: Terry Gilliam, 2013, con Christoph Waltz, Mélanie Thierry, David Thewlis, Matt Damon, Tilda Swinton)

THE ZERO THEOREM

Terry Gilliam è senza dubbio un folle genio che tuttavia, vuoi a causa di innumerevoli traversie produttive o forse (più probabile) per mancanza di lucidità, già da diverse prove dietro la macchina da presa pare aver perso la potenza, l’umorismo acido e il potere provocatorio che avevano reso grandi i suoi lavori passati. Avevamo tollerato gli eccessi barocchi di Parnassus perché ci era sembrato un sincero elogio alla vita e al potere affabulatorio e magico della settima arte (un film costruito in medias res, per dire addio al compianto Heath Ledger), non possiamo soprassedere sulle farraginosità di questo The Zero Theorem. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia ormai tre anni fa (con accoglienza tiepida) e “finalmente” in sala anche da noi dopo continui rinvii, l’opera di Gilliam è una sorta di trattato concettuale e filosofico (su sceneggiatura dell’esordiente Pat Rushin, docente di scrittura creativa) sul (non) significato della vita e sulla sua continua, forse futile, ricerca (temi non nuovi per il regista, basti ricordare i suoi trascorsi con i Monty Python). Ricerca messa in atto, in un imprecisato futuro, dallo sviluppatore informatico Qohen Leth (Christoph Waltz), a cui è stato affidato dal misterioso Management (una specie di grande fratello corporativo a cui presta il volto Matt Damon) il compito di risolvere il Teorema Zero del titolo, algoritmo impossibile che dovrebbe comprovare l’assurdità dell’esistente. Quella di Gilliam è una sorta di variazione metatestuale su argomenti che aveva già affrontato in passato, all’interno di una cornice di cinema “da camera”, claustrofobico e intimista al tempo stesso, quasi teatrale. Gli intenti sono sinceri, il cast convinto (ci sono anche partecipazioni amichevoli di Tilda Swinton, David Thewlis e altri volti noti) e talvolta Gilliam riesce a sferrare qualche sferzata polemica degna del passato, ma l’impressione finale è quella di un film curioso, incompiuto, più interessante sulla carta che nei risultati, freddo e inerte come un saggio di filosofia incapace di rivolgersi a qualcuno eccetto se stesso. (ap)

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