BENEDETTA FOLLIA

(Regia: Carlo Verdone, 2018, con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Lucrezia Lante della Rovere, Maria Pia Calzone, Paola Minaccioni, Federica Fracassi)

BENEDETTA FOLLIA

Colpisce al cuore e al cervello, Benedetta Follia. Colpiscono l’irruenza e il coraggio di Carlo Verdone, che a 68 anni prende l’azzardo di iniziare il suo 26° film da regista con uno sfrontato atto di autoreferenzialità, omaggiando quei caratteri che lo hanno portato, passo dopo passo, ad essere il cantastorie di un’Italia che cambia più velocemente di quanto voglia o possa accorgersi. Perché c’è Oscar Pettinari con la sua moto (Troppo Forte, 1986) a confrontarsi con Guglielmo, uomo di fede composto ma ingrigito, e a dimostrare come oggi la cifra stilistica di Verdone attore sia cambiata, impercettibilmente ma inesorabilmente; smettendo di tratteggiare con gusto grottesco nevrosi e tic dell’italiano medio, iniziando a riflettere (per farci riflettere) il vuoto pneumatico che il Gallo Cedrone andava preconizzando e che oggi sembra aver investito ogni emotività quotidiana. Perché il Verdone regista – che oggi intelligentemente scrive insieme alla felice penna di Guaglianone – vuole restituirci la solitudine emotiva nella quale siamo immersi, persi e spersi tra finzionali – e non funzionali – socialità da social: Benedetta Follia segue perciò le tracce dell’amore ai tempi di Facebook, e se è difficile stare al passo dei cambiamenti, Verdone decide di segnare una storia d’amore (tradito) con l’aggiornamento continuo di un desktop, di un portale, di una pagina social. Un rincorrersi continuo e sfiancante, ora ironico (la ninfomane veneta), ora surreale e scollacciato (l’ipocondriaca Paola Minaccioni e la ninfomane che echeggia Harry Ti Presento Sally ma finisce per omaggiare Alvaro Vitali), ora romantico (Maria Pia Calzone). Ma sempre disilluso e amareggiato, incapace di cogliere punti fermi in un mondo che non (lo) riconosce più. È per questo che Benedetta Follia diventa un film drammatico con battute comiche: uno dei migliori Verdone degli ultimi anni, che bypassa definitivamente l’eterno, frettoloso e fuorviante interrogativo di un pubblico a volte distratto (fa ridere o no?) immergendosi fino al collo in quella “malinconia gentile” di cui si veste la nuova maschera verdoniana, quella che forse ora gli appartiene di più, quella che evita il macchiettismo e che mette in risalto un lucidissimo e preciso magistero interpretativo, asciutto ma mai aspro. In un film che è il contrario di quanto ti potresti o dovresti aspettare da un regista del 1950: inframezzato da un balletto psichedelico che fa da spartiacque alla trama (coreografato da Luca Tommassini), puntellato da scudisciate contro preti e clero e pronto a restituire l’immagine di un’umanità allo sbando, sempre e pervicacemente alla ricerca di qualcosa in cui credere. Un cinema insospettabilmente vitalissimo e che si mette in gioco per un autore che non riesce a smettere di cercare nuove storie dell’anima per sorprendere il pubblico. E un po’ forse anche se stesso. (glf)

voto_4