MADE IN ITALY
(Regia: Luciano Ligabue, 2018, con Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Maria Sciarappa, Walter Leonardi)
Made In Italy è dedicato a tutti coloro che pensano, e dissero, e scrissero, che Radiofreccia era un ottimo film e che sarebbe divenuto un cult generazionale. A coloro che sentono, nelle parole di Ligabue (in musica e al cinema), risuonare la loro vita, a tutti coloro che in questo tipo di divulgazione – non chiamiamola arte, per favore, e neanche cultura – ci sia la “verità”, ci siano sudore e sangue. A tutti quelli che credono che il cinema italiano si salverà partendo dalle emozioni. Perché va scritto ben grande, per farlo risuonare: Made In Italy è un lungo, noioso e a volte irritante videoclip supponente e presuntuoso, che rubacchia qua e là componendo un mosaico che sì, porta forte la firma dell’autore… pardon, regista, ma è una firma che si rifà ad un universo derivativo, piatto, autoreferenziale e nel migliore dei casi smorto, asfittico, finto e finzionale. La storia: la vita da operaio di Stefano Accorsi gira a vuoto, così come quella privata accanto alla moglie Kasia Smutniak. Tutto questo raccontato attraverso le immagini che vengono dritte dritte da Made In Italy, omonimo concept album (ma chissà se la casa discografica – Luciano sì, lo speriamo – sa cos’è davvero un concept album: che mica basta raccontare una storia…): da “e questa sera vado fuori / sento troppa compressione / meglio uscire che scoppiare / io e il mio amico Carnevale”, da “questo muro duro e trasparente / ci vediamo ancora ma non passa niente / vittime e complici / di questa storia andata / in qualche modo prosciugata”, in un tripudio di rime incrociate e incatenate, metafore e simbologie appannate, luoghi comuni. Insomma, un disastro. Pretestuoso, per di più, e presuntuoso. Made In Italy ha l’ambizione di voler raccontare la provincia, ma racconta quella provincia da cartolina ormai rinsecchita nelle canzoni di un rocker fuori sincrono. Ligabue ha un solo, grande pregio: il saper scrivere con scioltezza, e di conseguenza saper raccontare con la camera. Peccato che quello che riprende sia sfiancato e sfinito, che non riesca a catturare nessun fremito di vitalità (neanche da Accorsi che compie un altro passo falso, ricalcando il suo peggior cliché): la linearità del suo stile diventa p(i)attume, e la vantata semplicità dei personaggi mancanza di approfondimento, mancanza di coraggio, mancanza di coerenza narrativa. Ed ecco allora che gli stacchi con le scenette musicali, il dramma accanto alla gioia, gli alti e i bassi della vita, risultano affiancati con la stessa leggerezza di un baccalà in un negozio di fiori. Autocelebrazione mediatica ed egotica, luogo comune che banalizza l’Italia raccontandola per luoghi comuni. E in più, la simpatia di Kasia Smutniak (che ancora non si sa se ci è o ci fa). Disastro. (glf)
Sign In