LA FORMA DELL’ACQUA – THE SHAPE OF WATER

(Regia: Guillermo del Toro, 2017, con Sally Hawkins, Richard Jenkins, Michael Shannon, Doug Jones, Octavia Spencer)

LA FORMA DELL’ACQUA – THE SHAPE OF WATER

C’è Tim Burton, per la poesia e l’elogio della diversità umbratile e sensibile. E c’è Il Mostro della Laguna Nera di Jack Arnold per l’aspetto esteriore della creatura fantastica. King Kong, La Bella e la Bestia di Trousdale e Wise (e magari pure Frankenstein) per il rapporto tra lo strano e pericoloso essere e la fanciulla. Tutti e tre i precedenti per i sottintesi sessuali – qui ben più espliciti, ma sempre adatti all’audience odierna. Il décor dei primi film di Jean-Pierre Jeunet, oltre all’esplicito rinvio al Favoloso Mondo di Amélie. Si potrebbe continuare a lungo nel riepilogo dei rapporti coltivati dal nuovo film di Guillermo del Toro con il fantastico e la fantascienza classici e contemporanei (in modo particolare la serie B di quest’ultimo genere), per non parlare dei molti possibili echi nei lavori precedenti del regista dei due Hellboy e di Pacific Rim. E tuttavia più che stare a identificare i singoli apparentamenti, sembra utile notare come la somma di parti pensate come brillanti (pensiamo a scene come l’amplesso subacqueo nel bagno allagato o alla fuga dal laboratorio) restituisca infine un quadro tutto sommato opaco: un cinema che omaggia con dovizia ma senza troppa fantasia più che un cinema che ammonisce o rilegge gli originali sotto forma di parabola contemporanea. La favola, come il recente – e non solo – canone hollywoodiano sembra pretendere, prende il sopravvento e annulla ogni potenziale carica dirompente in nome del lieto fine. Non che, a suo modo e nel contesto dell’opera di del Toro, La forma dell’acqua non sia un film riuscito, perfettamente fruibile dal pubblico di massa perché espurgato di alcuni tratti gotici o gore presenti in altri suoi lavori. Ma se la muta Elisa (una Sally Hawkins candidata all’Oscar, che però non sta proprio nella stessa categoria della Streep di The Post e della McDormand di Tre Manifesti) può liberare la sua voce soltanto in un sognante inserto musical, è forse segno che la deliziosa scaltrezza verso la mitopoiesi che emergeva a tratti da La La Land è stata già (mal)digerita. (dz)

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