DOPPIO AMORE
(Regia: François Ozon, 2017, con Marine Vacht, Jérémie Renier, Jacqueline Bisset, Myriam Boyer)

La filmografia di Ozon è sintomatica di cosa significhi essere autore alla fine della cosiddetta era postmoderna: vampirizzare autori del passato per costruirsi una riconoscibilità basata sull’uso di determinati segni e tematiche pre-esistenti. A titolo esemplificativo, si può notare come Ozon attinga dal Gotha degli autori (più o meno) rivalutati dalla nuova cinefilia, quelli che spesso il pubblico generalista ignora, da Fassbinder (Gocce d’acqua su pietre roventi) a Demy (8 donne), da Lubitsch (Frantz) a Chabrol (Swimming Pool). All’interno di questo macrotesto, Dans La Maison sembra quasi assurgere a manifesto di questa poetica (e di una certa tendenza dell’ultimo cinema d’autore francese) riprendendo una tendenza risalente al nouveau roman (Alain Robbe-Grillet coi suoi giochi metatestuali). Pur mostrando aggiornamenti all’altezza dei tempi (Almodovar, Elle), questo L’amant double prende in prestito topoi che avevano già fatto la fortuna di De Palma (Dressed to Kill, Raising Cain) e Cronenberg (Brood, Dead Ringers). Ma se il primo usava il manierismo per riflettere sul cinema del passato e portarne a galla i lati oscuri, del secondo manca anche il contesto: l’horror per mettere in scena l’immostrabile, cartina tornasole delle ansie nel decennio dell’edonismo del corpo. Cosa rimane, di tutto ciò, in L’amant double? Solo i segni, un calco che vorrebbe agire con circa 40 anni di ritardo e svuotato di qualsiasi senso, tipico del cinema che va di moda ora, sia per il suo poter mostrare tutto (dal ventre squarciato in CGI alla vagina in primissimo piano), sia per il fatto di raccontare storie già viste credendo di suscitare novità mischiando il più possibile le carte. Anche se a Cannes Ozon ha parlato di ironia, qui non sembra ce ne sia alcuna, e il tutto si riduce a un giochetto cerebrale portato avanti con distacco esasperato, laddove gli autori citati vantavano una consapevolezza oggi rara. Si è visto di peggio che L’amant double, ma è l’ennesima dimostrazione che Ozon non può dialogare coi suoi maestri, può solo copiarli e, come ogni postmoderno, fare qualcosa di nato vecchio e che di nuovo ha solo la patina. (dv)
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