ROMA
(Regia: Alfonso Cuaròn, 2018, con Marina de Tavira, Yalitza Aparicio, Daniela Demesa)
Roma è il nome di un quartiere di Città del Messico: dove, nel 1970, si svolgono le vicende di una famiglia altoborghese, con un padre che decide di abbandonare famiglia e moglie, costretta a fronteggiare i marosi quotidiani, sola insieme alla domestica incinta dopo le prime esperienze sessuali di un ragazzo che non ne vuole sapere. Dopo i fasti di Gravity – acclamato proprio sul Lido dove Roma viene presentato prima di andare al New York Film Festival, e subito dopo vincitore di ben 7 Oscar – Alfonso Cuaròn sembra rimettere in discussione le dimensioni di un cinema cresciuto improvvisamente (passando dal Prigioniero di Azkaban di Harry Potter ai sobborghi di Y Tu Mamà Tambièn fino alla galassia di Gravity), confrontandosi con una storia che per sua stessa ammissione ha molto di autobiografico. E anche se non è dato sapere quanto ci sia dell’infanzia dell’autore, Roma è un capolavoro intimo e prezioso, sentito e appassionato, una storia che racconta il privato mentre rimanda al pubblico, che però rimane sullo sfondo, risultando splendidamente strumentale ai dolori della crescita di un’intera famiglia. Guardando da vicino a Kantor, Cuaròn sembra mettere in scena frammenti di ricordi e superba narrazione per immagini: facendo sfilare uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità, vita e morte, presagi e fatture, dolori e salvezze esistenziali. Si apre con il pavimento di un cortile da cui lavare via escrementi di cane, Roma, e si chiude con un cielo visto sempre dallo stesso cortile: e soltanto per alcuni brevissimi istanti chi osserva sembra avere le chiavi per decifrare questo universo splendidamente, ermeticamente personale, ma che si apre ad una realtà storica (gli anni ’70, appunto, nell’America Latina, schiacciati dal Massacro del Corpus Christi) tornando poi in una più familiare dimensione casalinga. Al centro della narrazione la domestica, Clea, la straordinaria non-attrice Yalitza Aparicio, dallo sguardo dolente e silenzioso, muta testimone dei più drammatici sconvolgimenti della famiglia dove presta servizio.
Cuaròn dimostra di essere a suo completo agio dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo; con rara potenza simbolica gioca col ritratto storico e il dramma famigliare, utilizzando i suoi morbidissimi carrelli per lenti piano sequenza che, come ne I Figli Degli Uomini, sanno essere sottilmente cinefili e dolcemente sinuosi, immergendo la cronaca quotidiana in un universo dove tutto è cinema, riuscendo a dare il giusto respiro alla storia principale come a quella secondaria, assecondando i punti di vista (privilegiando quello della domestica protagonista) senza dimenticare l’affresco corale. Finendo per restituire un’opera monumentale, un totem affascinante e bellissimo, una storia semplice e coraggiosa che sfuma ogni emozione eppure sa farsi gigantesca nelle emozioni. Pura luce. (glf)
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