SUSPIRIA
(Regia: Luca Guadagnino, 2018, con Dakota Johnson, Tilda Swinton, Chloë Grace Moretz, Jessica Harper, Mia Goth)

Non saranno le madri a salvarci. Per quanto possa apparire spietato, l’amore di una madre ha sempre il suo rovescio e il suo limite e può contenere in sé il seme da cui possono zampillare sì la pietà e l’amore ma anche, terribile a dirsi, l’onda lunga della distruzione e del sangue. Nel remake di Suspiria (uno stravolgimento da cima a fondo che dell’originale argentiano mantiene solo alcuni tratti d’insieme), la prima e la più importante delle molte riscritture e variazioni operate da Luca Guadagnino è quella che sposta l’azione da Friburgo a Berlino. Città scelta per niente a caso. La livida Berlino divisa dal Muro che corre vicino alla scuola di danza di Madame Blanc presso la quale si reca la giovane americana Susie, è infatti l’epicentro di un movimento tellurico, di un campo di forze dove – proprio nel luogo in cui è morto il Male più spaventoso incarnato da Hitler – paiono annidarsi ancora i germi della (ri)nascita dell’Orrore. Un luogo maledetto che a distanza di oltre trent’anni dalla fine della guerra spande ancora i postumi dell’avvento del nazismo e prelude a un destino di divisione, precarietà, conti mai regolati definitivamente con la Storia e nel privato. La drammatica attualità delle gesta della banda Baader-Meinhof nell’autunno caldo tedesco 1977 si salda con il passato e mette ipoteche sul futuro: la vicenda personale dello psicanalista da cui è in cura Patricia all’inizio del film è lì per fare da memento (e infatti la sua perduta moglie è l’indimenticata Jessica Harper protagonista del film di Dario Argento). Troppo semplice, allora, cavarsela col dire che il film di Guadagnino non è un horror puro per via della diluizione degli elementi che caratterizzano il genere. Provate a staccare gli occhi dal montaggio alternato di una danza dolorosamente demoniaca che sembra iniziare come la sequenza di ballo di Flashdance; o a non allibire davanti alla ritualità sanguinaria del “sabba” conclusivo, nel quale è impossibile trovare alcunché di liberatorio, anche in senso negativo: e ditemi che questo non è, alla fine, un allucinato balletto sul perpetuarsi del Male, a cui la densità del décor e l’ipnosi delle canzoni di “Mr. Radiohead” Thom Yorke aggiungono una nota di funebre armonia. Un film provocatorio e lacerante, in molti sensi. (dz)
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