DOVLATOV

(Regia: Aleksey German Jr., 2018, con Milan Maric, Danila Kozlovsky, Helena Sujecka, Artur Beschastny)

DOVLATOV

Unione Sovietica, inizio degli anni Settanta: Sergej Dovlatov è uno scrittore che non riesce a pubblicare, lavora come giornalista ma vive un profondo e sottile disincanto, gira per Leningrado in cerca di una soluzione, parla con gli altri intellettuali (tra cui il geniale Brodsky, futuro Nobel per la letteratura), vive avventure nello spirito e nella realtà, pensa all’espatrio. Il regista russo Aleksey German Jr. ha già vinto premi importanti sia a Venezia (con Paper Soldier) che a Berlino (con questo film e con il precedente Under Electric Clouds, entrambi visti al Torino Film Festival), ma in Italia non esce nulla, a differenza di quello che avviene per i suoi più fortunati connazionali Sokurov e Zvyagintsev. Dovlatov è il racconto di una generazione e insieme di un suo rappresentante chiave: nelle oltre due ore del film, concentrato su sei giorni nella vita del giovane narratore, si colgono parimenti il paradossale umorismo che lo rese in seguito celebre tra i compatrioti (la pubblicazione delle opere in Russia ha avuto luogo solo dopo la sua morte, a New York nel 1990) e il ritratto della condizione politica ed esistenziale da topi in trappola che afflisse gli artisti non allineati all’ombra del totalitarismo sovietico. In apparenza distaccato e un po’ accademico, Dovlatov è viceversa intinto nello stesso pathos e nella medesima sostanza di un poeta spesso ironico, ma anche amareggiato da una situazione senza sbocchi: e quando, in un breve dialogo con la moglie verso la fine, egli ipotizza di lasciar perdere la scrittura per fare il muratore (con la consorte che lo rincuora dicendogli che sarebbe “un pessimo muratore”), il film raggiunge il suo acme sentimentale e centro spirituale. Un’opera fatta di atmosfere che svariano dal surreale al dolente e che meriterebbe più di uno sguardo generico. (dz)

voto_4