SORRY WE MISSED YOU

(Regia: Ken Loach, 2019, con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Ross Brewster)

SORRY WE MISSED YOU

Ricky trova lavoro come corriere “in proprio”, ma le condizioni di impiego non sono le più ideali per una persona con moglie e figli. Nonostante l’abnegazione e l’infaticabilità dell’uomo, l’orario lavorativo dai ritmi forsennati e le traversie del figlio maggiore Sebastian, adolescente problematico, mineranno l’equilibrio della famiglia. Scritto sempre dal fido Paul Laverty, il nuovo film di Ken Loach non deflette dalla linea di sfida del regista inglese e cerca ancora una volta di far meditare il suo pubblico sulle derive della moderna organizzazione del lavoro. Poco importa che i proletari di un tempo abbiano ormai sogni tipicamente borghesi (il protagonista accetta il lavoro e si indebita per iniziarlo perché vorrebbe passare da un appartamento in affitto a un più solido mutuo per comprare casa): un meccanismo presentato come favorevole al lavoratore perché gli offre l’opportunità di organizzare il suo lavoro – al limite basta “trovare un rimpiazzo” come lo avverte sempre il caposquadra Maloney – finisce per decretarne la rinnovata schiavitù. Loach è più articolato di quanto possa sembrare a un primo sguardo, il montaggio e la scelta delle inquadrature in interni con un personaggio per volta organizzano il dramma sottolineando la frantumazione del nucleo famigliare con l’ausilio di volti poco conosciuti, come sempre garanzia di accorato sentimento populista. Quello che di nuovo crea impaccio è la tendenza a semplificare in eccesso nella scrittura, tanto che a un certo punto pare che i guai del figlio dipendano tutti dall’assenza del padre costretto a lavorare troppo. Non che si pretenda un saggio sociologico, ma se il (coerente) finale aperto funziona si ha comunque l’impressione che certe banalizzazioni rischino di incrinare l’efficacia del film (per mostrare l’inumanità del sistema, si additano i clienti scortesi con il corriere o si evidenzia in modo dimostrativo che l’efficienza del meccanismo non prevede debolezze o concessioni per il lavoratore). Vorrebbe incitare a una presa di coscienza ma cade spesso nella sua stessa genericità e mancanza di lucidità: il cinema di Loach resta nobilmente umanista, ma sovente più piccolo della vita e della sua complessità a differenza, per fare un paragone, di quello di Stéphane Brizé. (dz)

voto_3