IL RE DI STATEN ISLAND
(Regia: Judd Apatow, 2020, con Pete Davidson, Marisa Tomei, Bill Burr, Bel Powley, Maude Apatow, Steve Buscemi)
Scott Carlin (Pete Davidson) è un twentysomething che non sa bene cosa fare della sua vita, il padre pompiere lo ha perso ad appena 7 anni e da allora non si è certo ripreso. Quando la sorella minore parte per il college e la madre (Marisa Tomei) prende a frequentare un altro vigile del fuoco (Bill Burr), Scott è ancora in alto mare, tra un’amica con cui fa sesso occasionale e altri compagni sballati poco propensi a impegnarsi seriamente in qualcosa. La biografia romanzata di Davidson, giovane celebrità del Saturday Night Live (già con Apatow in una parte del precedente Un disastro di ragazza), trova un imprevedibile punto di equilibrio tra i mezzi toni tipici dell’indie e la ballad di periferia; e se Judd Apatow sembra sempre pronto a sporcare il quadro con l’ombra di un familismo (evidente soprattutto nella seconda parte) di stampo conservatore, l’indugio sugli spazi suburbani di Staten Island agisce da compensazione. L’evidente affetto con cui vengono tratteggiati i personaggi non sbraca nell’autoindulgenza: il romanzo di formazione non si fa esemplare e i momenti potenzialmente comici e picareschi hanno un sottofondo di malinconia che alla lunga convince, benché molte figure di contorno suonino sacrificate (si pensi solo alla “famiglia” dei vigili del fuoco in cui spicca uno Steve Buscemi che, da Mosche da bar a I morti non muoiono, appare ospite fisso in film come questi, dai tratti agrodolci e un po’ stralunati). Uscito solo on demand negli Stati Uniti (dove riscuote successo sulle piattaforme), rischia di essere poco appetibile per il pubblico italiano: le poche sale aperte e il doppiaggio non aiutano affatto. (dz)
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