WONKA
(Regia: Paul King, 2023, con Timothée Chalamet, Olivia Colman, Calah Lane, Keegan-Michael Key)
Mettiamola così. Siete chiamati a giudicare un concorso di torte al cioccolato: ne mangiate una, che è pure buona, ma è una crostata di mele. Cosa fare? Non ha certo un cattivo sapore, ma non è una torta al cioccolato. Wonka di Paul King è un po’ così: non ha niente di Willy Wonka, e contemporaneamente è un classicissimo prodotto hollywoodiano pieno di colori, musiche e canzoni, buoni sentimenti e quel pizzico di inclusione che oggi non guasta mai. Ma è questo che è (ormai) oggi il cinema? È questa l’unica maniera possibile di concepire una storia su un franchise? Stravolgerlo, distorcerlo e piegarlo fino a renderlo irriconoscibile? Il Wonka di Timothée Chalamet non è per nulla uguale alla figurina evanescente del libro originale di Roald Dahl; né tantomeno vicino a quello costruito e interpretato da Gene Wilder, così geniale e affascinante da aver poi mangiato tutto il film di Mel Stuart, o quantomeno simile al freak circense di Johnny Depp del remake di Burton. Il personaggio di Chalamet non è nulla, se non una figurina strampalata e colorata che si muove aggraziato con la sola preoccupazione di non rovinare la pettinatura a là page, addirittura quando canta lo fa a bocca socchiusa per non rovinare le perfette proporzioni del volto sonnolento di un attore fuori luogo. Insomma, questo Wonka è una figurina gentile e stralunata, un po’ elogio della diversità e della povertà, un po’ inno all’intelligenza e alla perseveranza, che però non ha niente che possa catturare lo sguardo e l’attenzione di un pubblico pensante: incolore e senza personalità, senza sfumature e senza spessore, si muove all’interno di un film pure piacevole se ci si abbandona ad una trama che percorre i binari della più scontata prevedibilità. C’è tutto: la bambina povera che si scopre ricca (come nei migliori romanzi feuilleton), l’imprenditore cattivo e furbissimo, la sciocca locandiera che si vende al miglior offerente, la banda di dropout che si lega intorno al protagonista come una famiglia non di sangue. Insomma, una storia di formazione che non forma nulla, un’avventura senza senso dell’avventura, un percorso che non porta da nessuna parte. Neanche il gusto dell’occasione sprecata, però: perché non c’è niente che avrebbe potuto salvarsi. (glf)
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