Il Fantasma dell’Amore.
Partiamo dalla fine. Partiamo cioè da Smoke gets in your eyes con i Platters che nel 1958 candidamente (?) cantavano: They said someday you’ll find/All who love are blind/Oh, when your heart’s on fire/You must realize/Smoke gets in your eyes.
Hai il fumo negli occhi quando ti innamori. Sei cieco. E lo scopri soltanto someday, un giorno. E il finale della canzone è anche più triste e lancinante, con quegli amici che sembrano deridere chi ha perso il suo amore che se ne è andato, has flown away, è volato via. Tanto basta per affermare che il ballo romantico del finale del film di Andrew Haigh (ancora un illustre sconosciuto in Italia dove il suo precedente film, il bellissimo Weekend, è inedito) non ha nulla a che vedere con un lieto fine. E anzi, assomiglia molto di più a quell’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto che era il titolo del secondo episodio di Scene da un Matrimonio di Ingmar Bergman, che rimane un riferimento imprescindibile per tutto il cinema “di coppia”.
Ma 45 Anni non è un film su una coppia, e nemmeno sul suo sbriciolamento. Geoff e Kate rappresentano l’addizione di due solitudini. Geoff ha operato una rimozione, togliendo di mezzo il fantasma della fidanzata che, se non fosse morta in circostanze tragiche, egli avrebbe “sicuramente” sposato, per quanto ne era sinceramente innamorato. Kate è invece diventata sua moglie, e lo è stata per quasi 45 anni, senza mai rendersi conto di essere l’altra, la sostituta, la seconda scelta. Perciò la sua sorpresa è tanto più amara, per aver creduto a un altro fantasma, quello dell’amore, del legame sentimentale per la vita. La grandezza di Haigh è nel lavorare di sottrazione su un tema che in un altro contesto darebbe corpo a reazioni scomposte, pianti e scene madri, dialoghi torrenziali. Qui invece discorsi abbozzati, sussulti smorzati, sguardi pudichi e dolenti, a volte carichi di smarrimento, a volte al limite del risentimento, a volte ancora speranzosi, per quanto invano.
Charlotte Rampling è naturalmente divina, ma la regia non è da meno. Haigh gioca sul contrasto tra gli spazi domestici e quotidiani in cui per la maggior parte si consuma la drammatica epifania e quelli aperti dei campi circostanti la casa dei due coniugi. Lavora in modo discreto sulla messa a fuoco e sui punti di osservazione e di ripresa. Struttura il racconto, di cui è anche sceneggiatore, prima secondo un andamento discendente (che corrisponde grosso modo ai primi tre giorni, e sembra concludersi nel momento più basso, quello di profonda crisi, quando a letto i due non sanno se riusciranno a farcela) e di seguito in senso ascendente, descrivendo con lieve distacco la parvenza di armonia che Geoff e Kate cercano di instaurare, anche in vista della festa d’anniversario che servirà loro a rivestirsi, a rimettersi in scena di fronte agli amici. Non cerca mai di andare sopra le righe o di ergersi a guida, non ammicca, e nemmeno “inchioda” i due protagonisti alle loro mezze verità e alle loro responsabilità, trattando con il più grande rispetto anche la scena di sesso, che naturalmente (e coerentemente) non conduce a nulla. Un’intensa intimità coi personaggi che non scende a compromessi con la lucidità di osservazione, questo è il miracolo del film. Che riesce ad imprimerci nella mente l’immagine di un crollo, di una fine senza la possibilità di un nuovo inizio, e lasciarci sospesi come se ci fosse ancora qualcosa da dire o da aspettare.
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