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A TAXI DRIVER

A TAXI DRIVER

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Un’improbabile amicizia sullo sfondo del massacro di Gwan-ju.

Per il terzo anno consecutivo sarà un film interpretato da Song Kang-ho, uno degli attori più talentuosi e rappresentativi del cinema coreano del nuovo millennio, a rappresentare la Corea del Sud nella corsa alla nomination agli Oscar per la miglior pellicola straniera. Se negli anni passati The Throne e The Age of Shadows non sono riusciti a entrare nella cinquina finale, quest’anno l’impresa potrebbe riuscire con A Taxi Driver di Jang Hoon, già autore di titoli celebrati in patria e all’estero come Secret Reunion (interpretato sempre da Song Kang-ho) e The Front Line.
Maggio 1980, in Corea del Sud si susseguono rivolte e sommosse di piazza da parte di studenti e lavoratori contro la dittatura di Chun Doo-hwan, instaurata dopo l’assassinio del presidente Park Chung-hee nel 1979. Kim, squattrinato, vedovo e con una figlia a carico è un tassista di Seoul. Preso dalle difficoltà e dalle vicissitudini quotidiane, non si interessa più di tanto di quel che accade nel suo Paese ed è infastidito dalle manifestazioni degli studenti che intralciano e rallentano il suo lavoro. Un giorno “ruba” un cliente straniero destinato a un collega dopo aver sentito che l’uomo è disposto a pagare centomila won pur di arrivare a Gwang-ju. Kim non sa che in realtà il suo passeggero è un reporter tedesco deciso ad affrontare e superare ogni ostacolo per documentare le rivolte degli studenti che stanno infiammando la città, posta sotto isolamento dall’esercito per impedire che nel resto del Paese si venga a conoscenza della brutale repressione messa in atto dal regime del dittatore. Il rapporto tra Kim e il giornalista straniero – interpretato da un ottimo Thomas Kretschmann – è ostacolato dalle barriere linguistiche, aggravato da una reciproca diffidenza e una naturale antipatia che emergono da subito durante il loro viaggio. Catapultati nell’inferno di Gwang-ju (in cui persero la vita migliaia di persone scese in piazza per protestare pacificamente contro il regime militare), avranno modo e tempo di conoscersi meglio e di aiutarsi reciprocamente, mettendo a repentaglio le loro stesse vite per far sì che l’opinione pubblica internazionale venga a sapere del massacro in atto in Corea.
Ispirato a un’incredibile storia vera, capace di unire e di avvicinare due persone lontanissime per provenienza, estrazione e cultura, incentrato su uno degli episodi più tragici e sanguinosi nella recente storia del popolo coreano (una ferita ancora aperta a distanza di 37 anni), il film di Jang Hoon ha ottenuto un clamoroso successo di pubblico in patria, dove è stato visto da più di dodici milioni di persone. Si parte coi toni lievi della commedia, con un istrionico Song Kang-ho in veste di mattatore assoluto capace di strappare sorrisi e risate al pubblico per poi cambiare registro, virando bruscamente verso il film di denuncia e d’impegno politico, dai toni tesi, ansiogeni e vibranti. Un’opera solida e robusta, dal grande impatto emotivo, narrata in modo classico e tradizionale, capace di avvincere e tenere incollati allo schermo per oltre due ore. Una storia drammatica e commovente che ha per protagonisti due uomini che non potrebbero essere più diversi, quasi antitetici, uniti da un legame profondo e viscerale in seguito alle esperienze traumatiche e dolorose che si trovano a vivere insieme. Il regista si mette al servizio della storia, sorretta da una sceneggiatura abile e efficace nel far crescere la tensione, lo spessore psicologico e la caratterizzazione dei personaggi principali, dimostrando una grande maestria e perizia tecnica nel filmare e mettere in scena gli scontri e le rivolte, gli inseguimenti notturni della polizia e la lunga e rocambolesca fuga in taxi sul finale. Nell’affrontare una delle pagine più violente e controverse legate al regime dittatoriale che ha attanagliato il Paese negli anni ’80, A taxi driver si delinea inizialmente come una commedia per poi trasformarsi in un serrato thriller politico, con al centro un uomo comune, impersonato da uno straordinario Song Kang-ho che, scaraventato in un contesto drammatico e scioccante, si scopre capace di gesti di grande coraggio e altruismo.
Ancora una volta la cinematografia sudcoreana dimostra di saper confezionare un prodotto autentico, diretto e dal forte coinvolgimento emotivo destinato al grande pubblico, senza rinunciare alla componente spettacolare e alla classica commistione di generi, uno dei punti di forza e dei principali segni caratteristici del cinema coreano.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.