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Ad Astra foto3

Un’odissea nello spazio alla ricerca di se stessi.

Autore irrequieto e coraggioso, tra i più interessanti e talentuosi della sua generazione, James Gray ha percorso e frequentato diversi generi cinematografici nei sette lungometraggi realizzati nell’arco di venticinque anni. Dal crime movie al dramma sentimentale, dal film in costume al biografico avventuroso fino a cimentarsi in Ad Astra (in Concorso a Venezia 76) con la fantascienza, il genere cinematografico più introspettivo, utilizzato spesso come un veicolo per discorsi e questioni di carattere filosofico e esistenziale. Il genere che si interroga maggiormente sulla natura dell’essere umano in società sempre più avanzate e tecnologiche, sempre più alienanti e distopiche. Era quasi inevitabile che prima o poi il regista e sceneggiatore newyorkese si avvicinasse alla fantascienza, dal momento che coi suoi lavori ha dimostrato nel corso degli anni di volersi spingere oltre i propri limiti, in cerca di nuovi stimoli e di nuovi territori da esplorare. Con sguardo fisso verso l’orizzonte, alla ricerca costante di un altrove, senza timore di osare e d’impantanarsi, di scivolare o caracollare pur di fare evolvere e allargare i confini del suo cinema. Per Gray, uno dei pochi cineasti che si ostina ancora a girare in pellicola, ogni nuovo titolo rappresenta una sfida con se stesso e col sistema produttivo hollywoodiano. L’autore americano insegue un’idea di cinema pura e romantica, tramontata da tempo. La sua filmografia parla da sola, comunica in modo inequivocabile la sua impossibilità a scendere a patti o compromessi col sistema, del tutto incurante delle mode contemporanee o dei gusti e delle preferenze del pubblico odierno. Al centro del suo interesse e della sua indagine c’è sempre l’essere umano con le proprie debolezze e imperfezioni, i travagli interiori e i conflitti familiari e sentimentali.

Non fa eccezione questa space opera intima e dolente in cui un astronauta, il Maggiore Roy McBride, viene incaricato di una missione segreta da cui potrebbe dipendere la sopravvivenza della Terra, colpita da misteriose scariche elettriche causate con molta probabilità da un’astronave partita trent’anni prima per la missione Lima alla ricerca di forme di vita aliene: di essa si sono perse da tempo le tracce e al comando c’era suo padre.

Un’odissea nello spazio profondo alla ricerca di se stessi, delle proprie radici, degli affetti negati, di un padre che in fondo è sempre stato un estraneo, fonte e motivo di sofferenza. Una costante lungo questo viaggio alla scoperta di se stesso è rappresentata dalla voice over del protagonista, impegnato in un perenne dialogo interiore volto a scoprire e a interrogarsi sulle proprie emozioni e sentimenti, sulla natura umana, sulla sua propensione a colonizzare e sopraffare (1).

Gray gira il suo film più costoso (intorno agli 80 milioni di dollari) come si può notare a partire dal sublime incipit, si avvale delle luci del bravissimo Hoyte Van Hoytema, non rinuncia ai momenti spettacolari e alle scene d’azione, agli inseguimenti sul suolo lunare che rimandano sia alla saga di Mad Max che a Ombre Rosse di John Ford, agli scontri violenti e sanguinari a bordo di navicelle e astronavi. Nell’epilogo i toni si fanno ancora più cupi e pessimistici, col doloroso e irrisolto faccia a faccia tra un figlio che si credeva orfano e che di fatto lo è sempre stato e un padre arido e anaffettivo, preda e ostaggio di un’ossessione che lo ha allontanato da tutto e tutti e lo ha reso protagonista di azioni folli, mostruose e disumane.

Un pellegrinaggio oltre la Luna, Marte e Nettuno alla ricerca della propria natura, delle emozioni e dei sentimenti repressi e nascosti, bloccati da un sistema che mira a controllare e a imporre alle persone di essere insensibili per poter essere maggiormente performanti. Un viaggio che nel canovaccio di base prende ispirazione da Cuore di tenebra di Conrad, già citato e ripreso da Gray in Civiltà perduta, il suo penultimo lavoro; un viaggio alla ricerca del proprio io interiore che porterà Roy – interpretato da un ottimo Brad Pitt che sta attraversando uno dei momenti più ispirati e felici della sua carriera – a considerare la propria vita da una nuova e diversa angolazione e a dare la giusta importanza al mondo circostante e agli affetti più cari.

(1) Siamo divoratori di mondi, afferma il protagonista al suo arrivo sulla Luna, trasformata in una copia brutta e opaca della Terra, sottoposta al medesimo, vuoto e frenetico, consumismo.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.