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Agata Buzek, Lou de Laâge and Anna Próchniak in "The Innocents" (2016).

Violate nel corpo, ferite nello spirito.

Dopo l’anteprima mondiale all’ultima edizione del Sundance Film Festival ed il passaggio in diverse rassegne internazionali, tra cui France Odeon che lo ha tenuto a battesimo per l’Italia, Les Innocentes di Anne Fontaine arriva sui nostri schermi a partire dal 17 novembre con un nuovo titolo, Agnus Dei.
Polonia, dicembre 1945. Una suora esce da un convento per recarsi in città, alla disperata ricerca di un dottore che non sia né polacco né russo. Guidata da alcuni bambini arriva al centro logistico della Croce Rossa francese dove trova Mathilde, una giovane volontaria disposta ad aiutarla e a seguirla fino al monastero. Giunta a destinazione si trova costretta a praticare un parto cesareo per salvare la vita di una giovane donna e del suo piccolo, scoprendo poi che diverse monache sono in stato interessante dopo essere state stuprate a più riprese da alcuni soldati sovietici. Affrontando diverse difficoltà e avversità, Mathilde si prenderà a cuore la sorte delle monache, violate nel corpo e scosse nell’anima.
Anne Fontaine firma qui una delle sue opere più compiute e drammatiche, ispirandosi ad una pagina poco nota della Seconda guerra mondiale (ben sceneggiata da Sabrina B. Karine e Alice Vial e adattata dalla stessa regista insieme a Pascal Bonitzer). Col giusto approccio tratteggia una storia quasi tutta al femminile con occhio partecipe e sensibile, ma senza scadere nel patetico e nel lacrimevole. La Fontaine riesce a tenersi in perfetto equilibrio tra i diversi registri che contraddistinguono il suo film, che in gran parte è un dramma da camera, ambientato in prevalenza negli spazi chiusi e circoscritti del convento e perlopiù caratterizzato da numerosi dialoghi tra due interlocutori. Tra Mathilde, giovane medico di simpatie comuniste dal carattere forte e indipendente (interpretato da una talentuosa e assai promettente Lou de Laâge) e le suore del convento poco a poco si viene a creare un forte legame nonostante le profonde differenze – di carattere culturale, religioso e sociale – che le contraddistinguono.
Un’opera solida e robusta che poggia le basi su uno script preciso e puntuale sviluppato da un lavoro di ricerca e analisi a partire dal diario della dottoressa Madeleine Pauliac (che nella finzione cambia nome in Mathilde), che nella Polonia desolata e devastata dal secondo conflitto mondiale aiutò alcune suore di un convento benedettino a partorire e a riprendersi dagli abusi fisici e dai tormenti spirituali, in uno scenario politico di fatto poco incline e favorevole agli istituti religiosi.
Il coinvolgimento dello spettatore procede in modo costante e graduale durante la visione fino ad una piena immersione emotiva, ottenuta dagli autori in modo sobrio e naturale, senza forzare la mano o insistere sui molteplici aspetti potenzialmente ricattatori. La Fontaine non eccede e non spettacolarizza mai, mantiene uno sguardo pudico e rispettoso, profondamente empatico nei confronti delle sue protagoniste, monache che hanno subito la più indicibile e ignobile delle violenze e che si ritrovano a portare avanti con segretezza, tormento e vergogna una gravidanza che le ferisce nello spirito.
Ottima la scelta del cast, oltre alla sorprendente e folgorante interpretazione di Lou de Laâge vanno segnalate le prove intense e ispirate di Agata Buzek e Agata Kulesza ed un Vincent Macaigne, nei panni del medico francese invaghito di Mathilde, che tramite il ricorso ad alcune battute ironiche e sarcastiche svolge anche una funzione di alleggerimento all’interno di un contesto particolarmente drammatico che sul finale si fa più arioso e portatore di un messaggio di speranza e amore (in primis quello materno).
Anne Fontaine, che nel frattempo ha quasi ultimato Marvin, il suo prossimo film dove torna a collaborare per la seconda volta con Isabelle Huppert, dimostra dunque di trovarsi in una fase artistica particolarmente felice e ispirata, testimoniata anche dalla buona riuscita di Gemma Bovery, il suo lungo precedente interpretato da Fabrice Luchini e Gemma Arterton.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.