La forza dell’eccezione.
La vicenda della firma di Michael Jordan per la Nike agli albori della sua carriera NBA si sarebbe potuta facilmente derubricare a prequel dell’agiografia di The Last Dance, con tutto il relativo carico di aspettative da nascita di una stella. Ma AIR – La storia del grande salto ha l’intelligenza di non muoversi in quella direzione: la sceneggiatura di Alex Convery ha altre mire, altre ambizioni che, soddisfatte o meno, portano in acque del tutto differenti.
Ben Affleck, dopo il flop del goffo La legge della notte, trova un terreno che gli è più congeniale non tanto nell’epica sportiva mille volte celebrata quanto nel racconto – romanzato fin che si vuole – di ciò che contribuisce alla costruzione della leggenda. A posteriori potrebbe apparire tutto facile, nitido, incanalato su binari che portano proprio là: a ciò che è destino che si compia. Ma il film, a suo modo ultraclassico (sappiamo bene quanto Affleck regista debba ai registi del passato), chiede innanzitutto considerazione per le combinazioni, le scelte, le coincidenze, gli allineamenti astrali e gli atti di volontà che portano alle condizioni in cui il Mito si palesa e si rafforza. Non è il caso di scomodare per l’ennesima volta John Ford e L’uomo che uccise Liberty Valance con la sua morale “Print the Legend”: Michael Jordan sarebbe diventato quello che è stato anche con Adidas o Converse ai piedi e di questa evidenza si fa portatrice la madre Deloris: la scarpa smette di essere solo una scarpa quando il Re Mida dello sport americano la indossa (una didascalia avvisa che delle prime Air Jordan furono venduti 162 milioni di paia nel solo anno da matricola in NBA di MJ).
E non è granché centrato neppure stimare il film come la solita parabola sulla volontà degli uomini che vince le condizioni avverse e ottiene un risultato incredibile, come pure si potrebbe fare dato il personaggio di Sonny Vaccaro, un Matt Damon che incarna ottimamente, con la pancetta e l’aspetto poco curato, l’uomo medio forte solo di una grande intuizione e di una tenacia oltre il limite del buon senso.
AIR – La storia del grande salto mi sembra invece un’opera sull’eccezione. Non sull’eccezionalità, si badi: Jordan non a caso rimane defilato e silenzioso, in ombra, tutt’al più di spalle o in semisoggettiva nelle non molte scene in cui compare, materiali di repertorio a parte. Affleck e Convery concentrano, addensano l’eccezione sulla congiuntura temporale, sul 1984 e i suoi paraggi: fin dai titoli di testa lanciati su Money for Nothing dei Dire Straits, lo spartiacque pare di natura temporale, persino involontariamente nostalgico di un periodo storico sentito come irripetibile (1). Eppure l’eccezione è diffusa, non si riduce all’occasione, è uno spirito che promana e si muove da dentro per irrompere nella realtà e stravolgerla con il suo furore e la sua ribellione alle regole e ai dettati troppo formalizzati, come le numerose “prime volte” e precedenti che la Nike sperimenta pur di cogliere l’attimo e mettere sotto contratto il futuro padrone dell’NBA. È in ultimo l’America, una nazione tutta fondata appunto sull’eccezione, sull’insofferenza e l’oltrepassamento delle norme (le stesse massime che fanno l’ossatura dell’etica Nike punteggiano tutto il film, a volte ci prendono e a volte no, ma infine scivolano nell’irrilevanza davanti al potere di ciò che si staglia all’orizzonte come impossibile da ignorare o comprimere). L’eccezione avvolge tutto, c’è poco da fare. Il che sul piano politico può suonare davvero retrò e deludere e persino indignare i (molti) critici: ma si può leggere anche come qualcosa che ci ricorda il senso dei nostri limiti e ha il sapore della genuinità, senza scordare che ha comunque un pur elementare contrappeso nella presa di coscienza del vero significato di Born in the USA.
La domanda non si può scansare: volete snobbare il film? Accomodatevi, ma potreste fare a meno di farci la morale e di ricordarci le solite cose trite e ritrite sugli Stati Uniti e sul loro semplicismo culturale e ideologico? Questo film, che lo desiderasse o no, lascia riemergere qualcosa che rimane radicato in profondità e non si leverà di mezzo tanto per fare un piacere agli aedi del corretto, delle giuste proporzioni o dell’ideale.
(1) La selezione musicale non mente: da All I need is a Miracle di Mike + The Mechanics a Time after Time di Cyndi Lauper a Sirius di Alan Parsons Project ai Tangerine Dream di Breathing the Night Away e a Telescope di Pino Donaggio, tutto ruota attorno agli anni centrali del decennio che ha segnato un intero immaginario.
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