Ieri, oggi, domani.
Jia Zhang-ke sembra dichiararlo già con la scelta dei formati mutevoli, dal 4:3 del segmento iniziale al 2.35:1 dell’ultimo episodio: questa è una storia che evolve, si allarga, aumenta, lievita. Come lievita quella Cina in cui il PIL è più che decuplicato dalla fine degli anni Novanta, così le vite di Tao, dei suoi amici e poi del figlio di Tao, cambiano e si “espandono” allontanandosi dai loro luoghi natii e sperimentando nuovi territori e possibilità, arricchendo la loro esistenza, dando loro altri significati.
Eppure, in tutto questo c’è una perdita. Una memoria che scompare, una misura di cui non si conoscono più le vie, una lingua del cuore dalle armonie spezzate, un nome dimenticato dentro una piega dell’adolescenza, una canzone senza titolo sentita chissà dove in un tempo impreciso. Al di là delle montagne si compone di frammenti che sembrano sempre incrinare la visione d’insieme con la loro incongruenza al disegno. Nella classicità della sua struttura tripartita (il recente passato, l’oggi, il domani prossimo), l’ultimo film di Jia Zhang-ke accumula tutta la tensione opprimente di un viaggio verso una meta per raggiungere la quale c’è comunque un costo. La canzone dei Pet Shop Boys posta al principio e alla fine del tragitto ne descrive solo la parabola generica, mentre lascia allo spettatore il lusso di esaminare i relitti lungo il cammino e di scoprirne il peso specifico, quello che permette di rovesciare il senso del tempo trascorso e delle speranze riposte nell’avvenire. Come di consueto il regista sabota il realismo mediante inserti di simbolica indecidibilità, ma se in Still Life un palazzo poteva d’improvviso scattare a razzo verso il cielo senza lasciare traccia, in Al di là delle montagne è più facile che un aereo precipiti e si proponga come un lampo di coscienza sgomenta – e chissà quanto concreta – dentro l’involucro di un’ingenua accondiscendenza al corso degli eventi.
Se il film di Jia ha un difetto è il suo porgersi indifeso, privo di astuzie e di schermi. Le sue metafore si offrono a mani nude, non vengono a patti con la complessità di un ragionamento sulla Cina contemporanea, non ne hanno il bisogno né l’intenzione. Perciò possono sembrare scarne e persino inappropriate – specialmente nel terzo episodio, quello necessariamente più arrischiato per la sua natura di ponte su un futuro da scrivere – quando non sono altro che magre, ridotte ad accidenti di una sostanza che le travolge. Niente ars celandi, niente perfezioni zen, che sarebbero inganni: come già si poteva intuire dal precedente Il Tocco del Peccato il regista non disdegna il genere, e però ha l’accortezza di non affidarsi del tutto alle sue modulazioni. S’impiglia sul mélo ma lascia che scivoli via, come nella storia d’amore edipica fra il giovane Dollar e la veterana Sylvia Chang; non carica dell’intensità di un (breve) road movie l’itinerario che Tao compie con il figlio su un lentissimo treno locale solo per rimanere il più a lungo possibile con il ragazzo prima che questi torni ad abitare con il padre. Jia Zhang-ke non cerca di convincere i critici, si preoccupa viceversa soltanto di quel filo emozionale che attraversa il film e che emerge in evidenza all’ultima scena. Tao balla di nuovo al ritmo di Go West e come un’epifania s’impossessa di lei. Non è possibile tornare indietro a quel momento di giovanile speranza, ma per pochi momenti è bello anche solo sognarlo.
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