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L’interquel di Alien.

La trama di suo è abbastanza lineare: un gruppo di giovani in fuga da una malsana e opprimente colonia mineraria spaziale cerca di sfruttare il contenuto del relitto della Nostromo, la nave spaziale in cui era ambientato il primo film della saga di Alien, per fuggire sul pianeta Yvaga. Mal gliene incoglie.

L’interquel, ossia l’anello che almeno a posteriori manca (cronologicamente) tra Alien (1979) e Aliens (1986), non poteva (?) che rimpolpare la nostalgia dei fan della serie (di qui l’evocazione di ambienti e personaggi, senza particolari licenze poetiche o fantasia) nel mentre cerca di titillare i possibili fan appartenenti alla Gen Z mediante volti e atteggiamenti da live su Twitch (eccezion fatta de iure per la protagonista Cailee Spaeny, già ipotetica avanguardia del neodivismo con appena tre film “giusti” nell’ultimo anno). Fin qui un calcolo sul mercato che ci sta tutto. E il film, com’è? Situazioni più riuscite e altre meno (se ne parla in abbondanza in tanti post e non è il caso di stare a riassumere), pestando un bel po’ il pedale dell’horror con torme di Xenomorfi, com’è in fondo sensato e verosimile nel film di un regista che in materia sa il fatto suo ma non è propriamente un autore, benché immagino ci sia da qualche parte chi sarebbe pronto a elevarlo agli altari per Man in the Dark.

Tutto bene allora? Un onesto film di genere che basta e avanza anche quando cerca qualche connessione forse di troppo con le altre puntate della saga? Sì, ma sembra che, accanto agli inesauribili passatisti per i quali il capostipite di Scott del 1979 e quelli di Cameron e tutt’al più Fincher non si toccano nemmeno con un dito, spuntino ovunque letture elaborate che nobilitano il film di genere (ce n’è proprio bisogno, nel 2024?), esaltando l’operazione all’interno dei codici e nel dialogo (inevitabile tanto più dopo il passaggio di 21st Century Fox a Disney) con l’industria dell’intrattenimento come se si trattasse di una qualche qualità inusitata e liberatrice. Pare che ormai i film di genere non siano più sufficienti in sé e per sé e che serva il sigillo dell’importanza culturale per goderli appieno: ma forse in questo c’entra il ruolo di una critica troppo esposta all’orizzontalità del dibattito da bar sport dei social media (e il risultato si vede, purtroppo, con la fioritura di interpretazioni intorno all’ultimo Shyamalan, prodotto pieno di consapevolissime strizzate d’occhio che cerca in tutti i modi di stimolare discorsi a proposito di). Solo che i generi, soprattutto quelli che per molti sono ancora in odore di fanzine giovanilista, come l’horror, non hanno mai avuto bisogno di reclamare un posto al tavolo dei grandi e, anzi, hanno raggiunto l’apogeo della loro vena inventiva quando meno hanno fatto leva sulla loro importanza, si tratti (tanto per dire) dei thriller di Lang degli anni Cinquanta, dei film di Roger Corman o di Non aprite quella porta, bellissimi “nonostante”. Auguriamo al film di Fede Álvarez la medesima fortuna, pur se personalmente conserviamo qualche dubbio: ma intanto ci piace per quello che ci dà, con limiti e difetti, e non per quello che potremmo volere ci fosse.

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.