Il nuovo film dei fratelli D’Innocenzo disarma l’onnipotenza dello sguardo dello spettatore.
Fu proprio Freud a suggellare l’unione tra cinema e psicanalisi (entrambi nati nel 1895), dicendo che “il sogno pensa innanzitutto prevalentemente, ma non esclusivamente, per immagini visive”: da allora, innumerevoli sono gli studi che fin dai primi decenni del secolo avvicinano il funzionamento del linguaggio cinematografico e quello dei sogni. In seguito, sia Christian Metz che Thierry Kuntzel negli anni Settanta evidenziarono come il cinema tout court, nel suo complesso, abbia alla base del suo funzionamento una serie di meccanismi molto simili a quelli della mente umana. Processi mentali inconsci come lo spostamento, la condensazione, la censura, sono alla base dei significati latenti, ma anche e soprattutto della significanza (modello di organizzazione generale delle strutture narrative e dei temi trattati) tanto del sogno quanto dei film.
Nella storia del cinema sono molto pochi gli autori i cui film si prestano in maniera totalmente aderente ad un’analisi psicoanalitica, e andando a memoria vengono in mente solo David Lynch e Marco Bellocchio. E da oggi, i fratelli D’Innocenzo. Probabilmente, il loro terzo film, America Latina, è stato apertamente osteggiato e sbeffeggiato perché fondamentalmente incompreso non solo per il peccato originale di essersi trovato in mezzo all’ordalia dei film italiani in concorso a Venezia, ma anche di essere – similmente al Lost Highway lynchiano – un film che mette in scena la prima topica freudiana.
Nel 1919, Freud nel suo saggio Il Perturbante parlava di un tempo-ripetizione all’interno del quale ciò che ci è noto da tempo, addirittura familiare, dopo esserci diventato estraneo per mezzo della rimozione ritorna a far valere le proprie ragioni: e cosa c’è di più perturbante di una ragazzina rapita, legata e imbavagliata nella propria cantina? Da qui in poi, la storia del dentista Massimo (un’incredibile Elio Germano) si snoda attraverso varie fasi o meglio vari quadri, nei quali a fatica emerge il paesaggio che viene completamente, quasi incessantemente oscurato dai primissimi piani dei pochi attori in scena: e non a caso si è usato il verbo emergere, in quanto lungo tutto America Latina ci sono diversi momenti di riemersione del rimosso sotto varie forme, come se appartenenti ad un catalogo freudiano. Dall’agenda con gli appunti che il protagonista scrive incessantemente, alle immagini che si inseriscono senza nessun senso apparente nella narrazione; sono tutte anche testimonianze tangibili che richiamano la coazione a ripetere di Al Di Là Del Principio Del Piacere sempre di Freud, dove l’inventore della psicanalisi scopriva una concezione del tempo diversa da quella lineare, tipica del pensiero occidentale, basata sullo studio esclusivo del meccanismo percettivo-cosciente. Tutta la terza opera di Damiano e Fabio D’Innocenzo va avanti così, per ellissi psichiche, sgretolando progressivamente e accuratamente una successione diacronica a favore di una serie di flash, di lampi, che potrebbero essere collocati in un momento qualsiasi della giornata di Massimo. D’altronde, è lui stesso ad ammettere di non avere la percezione del tempo e di avere frequenti perdite di memoria.
Sempre nel Perturbante (Das Unheimliche), una delle interpretazioni riguarda il tema cruciale dell’ambivalenza dell’altro e dell’identità divisa: da qui, si individuano facilmente nel film quegli spazi intermedi tra la dimensione del reale e quella del fantasmatico, che generano nello spettatore quei sentimenti di spaesamento, confusione e ambiguità descritti da Freud e da sempre inseguiti dai D’Innocenzo, in maniera latente in Favolacce, con una forza vertiginosa in America Latina. Non sono poche le sequenze nelle quali il protagonista si specchia e l’inquadratura lascia il campo esclusivamente alla sua immagine riflessa: e sono stati gli stessi registi a dire che “il tema del doppio ci ossessiona un po’ da quando avevamo un secondo di vita, guardando davanti a me non vedevo il cielo e la terra ma vedevo mio fratello, una cosa che mi somigliava tantissimo” (parole di Damiano).
La maestria dei D’Innocenzo allora sta nell’essere riusciti a trovare un’ulteriore chiave di lettura e riflessione per le loro ossessioni personali innestandole su un talento innegabile e innato per la composizione cinematografica. E chissà quanto è stato consapevole aver utilizzato proprio quella villa come casa del loro Massimo: una villa apertamente disarmonica, lontanissima dalla composizione architettonica di un’abitazione normale e quindi, anche questa, perturbante in qualche modo. Con un piano terra come zona giorno, un primo piano come zona notte e una cantina invisibile dall’esterno: una struttura inequivocabilmente da riportare alla citata prima topica freudiana del 1920, che divide l’apparato psichico in conscio, preconscio ed inconscio, e alla seconda topica che individuava nell’Io, nell’Es e nel Super-Io le istanze psichiche corrispondenti ai poli razionale, pulsionale e censorio della mente umana. Sia in America Latina che nella prospettiva psicanalitica, l’apparato psichico è un’organizzazione strutturale e funzionale della mente mediante la quale questa gestisce l’energia psichica: con la prima topica, Freud formula il modello dell’apparato psichico; con la seconda, elabora una concezione della personalità. Per Massimo, l’attività cosciente – conscio -, ovvero le cose di cui siamo pienamente consapevoli, si svolge alla luce del sole, nella parte della villa dove le stanze sono illuminate – il piano terra -; i pensieri che normalmente non sono disponibili alla coscienza ma che possono essere richiamati tramite un atto di volontà – preconscio - corrispondono al primo piano, quello dove Massimo dorme con la moglie, dove lui stesso deve fare uno sforzo per ricordare (come nella scena nella quale lui chiede alla donna perché la figlia gli avesse chiesto scusa, non ricordando cosa fosse successo di notte); e alla fine la parte più rilevante dell’attività psichica che però si svolge in una dimensione sommersa, invisibile – inconscio -, ovviamente rappresentata dalla cantina. Dove Massimo cerca di fare pulizia mettendo ordine ai propri pensieri, dove tenta di sommergere la verità del rapimento (con l’acqua), dove veste la bambina rapita con i suoi stessi indumenti, facilitando la comprensione che quella bambina è lui, è la sua parte ferina, nascosta, buia.
Sopra tutto questo, i D’Innocenzo usano luci (che assecondano la zona psichica dove ci si trova di volta in volta, blu, rosso, verde, bianco: e non per niente, la storia prende il via quando si fulmina una lampadina, ovvero si spegne una luce), dissolvenze, rumori assordanti, smarginature. America Latina diventa un mondo pulsante in continua evoluzione, visione dopo visione, che prende forma prima nell’inconscio: un film che pretende di essere rielaborato, e che disarma l’onnipotenza dello sguardo dello spettatore levando ogni coordinata logica per gettarlo in quell’oscuro magma ribollente che è il cinema.
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