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ANIMALI NOTTURNI

ANIMALI NOTTURNI

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Nocturnal animals foto2

Sotto i vestiti niente.

“Il nostro mondo, credimi, è molto meno doloroso di quello reale” dice Michael Sheen a una Amy Adams algida e compassata, in una delle sequenze iniziali del film. E in quella frase è presente tutta la cifra stilistica e poetica del Tom Ford regista: l’opulenza, che spesso fa rima con denaro, o almeno la sua parvenza, come scudo emotivo. Quello che tiene in piedi l’universo di Susan (la stessa Adams), ricca gallerista di Los Angeles, ma non quello spezzato di Tony (Jake Gyllenhaal), costretto ad assistere al massacro della sua famiglia. C’è da aggiungere poi che Tony è un prodotto della fantasia di Edward (sempre Gyllenhaal), aspirante scrittore ed ex marito di Susan, la quale non è esente da colpe, forse anche quella di aver “creato” Tony.
Il problema però è che questo scudo, oltre ad essere percepito dai caratteri nella finzione, si pone anche tra opera e spettatore, soffocando invece che incendiare. Diviene così impossibile discernere tra il Tom Ford narratore e il suo “marchio” (in sala, alla comparsa del nome del regista nei credits ho udito: “Chi? Quello degli occhiali?”). Lungi dall’essere una crociata contro chi da altri ambienti si mette dietro la macchina da presa – Tom Ford è solo l’ultimo esempio, pensate a Madonna, che ha all’attivo due pellicole – non fare i conti con la provenienza del regista dal mondo della moda è impossibile. Anche nel suo esordio, l’interessante A Single Man, l’estrema compostezza, la bellezza dei corpi e l’impeccabile vestiario erano di macroscopica presenza, ma erano percepiti spesso come un peccato veniale. Il film aveva un suo centro ben preciso, così come una direzione precisa, alla scoperta dolorosa del lutto e della vita, merito anche dell’ottimo materiale di partenza: Isherwood è stato un importante scrittore, mentre di Austin Wright, autore del romanzo Tony & Susan da cui Animali notturni è tratto, non sappiamo.
Ma qui si parla di cinema e non di letteratura (e nemmeno di moda). Le sequenze iniziali di raggelante compostezza, in una Los Angeles irreale, portano alla mente Lynch, specie Mulholland Drive, ma è un fuoco di paglia. Tutto lo spazio se lo prendono i corpi, nudi, abbigliati, anche quelli deturpati dal decadimento e dall’adipe (la sequenza iniziale mostra signore di una certa età, in carne e completamente nude, tableaux vivants di una mostra di Susan); involucri perfetti, anche nello struggimento interiore, ripresi attraverso uno specchio bagnato a volta, a cui purtroppo manca solo un messaggio pubblicitario targato Calvin Klein, pardon, Tom Ford. Quelli che nella mente dell’autore avrebbero dovuto essere forse il motore di una narrazione carica di effetto e significato, fagocitano invece tutte le scene madri, un po’ come dei veri tableaux vivants a una mostra d’arte contemporanea: affascinanti magari, ma non in grado di raccontare.
Così come non lo fanno gli attori, intrappolati da pose e accessori, quasi ai limiti del product placement (la Adams porta spesso degli occhialoni da vista rigorosamente griffati, che dovrebbero trasportarla nella dimensione di noi comuni mortali, ma non fanno altro che renderla più inarrivabile). E alcuni stacchi di montaggio sono al limite del ridicolo. Uno su tutti: la scoperta dei corpi nudi della moglie e della figlia di Tony perfettamente composti su un divano rosso fuoco in mezzo al deserto texano; con le natiche bene in vista, esattamente come alcuni secondi dopo la figlia di Susan, uscita poi da chissà dove e mai più ricomparsa, a letto con un ragazzo. Non basta per ravvivare la parte thriller ambientata nel Texas occidentale, forse la più riuscita. Purtroppo viene resa pretestuosa dall’altra parte, sempre all’ostinata ricerca, anche attraverso dialoghi a cui avrebbe fatto comodo sapere che cosa significa sottotesto, della natura della debolezza dello scrittore Edward.
E pur a costo di abusare di un cliché, viene da dire che la montagna partorisce il topolino. Il giochino tra finzione e realtà non fa altro che ricalcare banali discorsi sulla narrazione come catarsi e voglia di immortalità e prende molto alla larga le vere colpe dei protagonisti, tutt’altro che urgenti. Ormai si annoiano più o meno tutti per ménage familiari già visti fatti di tradimenti, gravidanze nascoste e poi interrotte e più ancora per i classici figli di papà che rigettano i valori conservatori dei genitori (qui rappresentati da un’imparruccata Laura Linney) per scoprirsi in seguito ancora più borghesi di loro.
Ed è un peccato, specie per chi come me aveva un buon ricordo dell’esordio di qualche anno fa, perché a volte Ford si ricorda anche di come si fa il regista, pur non essendo certo Lynch. La sequenza dell’incidente, in cui ci viene presentato il personaggio di Aaron Taylor-Johnson, è ben fatta, quasi ai limiti dell’iperrealismo. E alimenta il rimpianto per un prodotto più tradizionale, non sporcato da tanta “purezza”. Anche se probabilmente sarebbe toccato a un altro e non si sarebbe potuto dire: Tom Ford (chi? quello degli occhiali, dei vestiti, lo stilista?) fa un altro film. Ma tant’è…

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Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.