Nel post-pandemia, è un dato di fatto che i soli (quasi) film che riescono a mantenere al botteghino le cifre del mondo prima del Covid siano quelli dedicati agli eroi creati da Stan Lee. Una circostanza che dovrebbe far riflettere i borbottoni talebani, figli di chi a fine anni Settanta guardava con diffidenza a Star Wars: prima che saltino dalle sedie, però, levando gli scudi contro i paragoni irriverenti – certo che è irriverente, ma anche provocatorio -, meglio far capire che l’accostamento viene fatto solo perché quando si è in presenza di un fenomeno acclarato (e i film dell’MCU un fenomeno ormai lo sono, volenti o nolenti tutti, ormai al trentunesimo capitolo con Ant-Man & The Wasp: Quantumania, e a quattordici anni di distanza da quell’Iron Man di Jon Favreau che aprì la strada all’invasione Marvel al cinema), l’atteggiamento giusto è quello di studiarlo, il fenomeno, e non di chiudersi dentro una torre arroccandosi in difese posticce.
Non c’è nessun podio in pericolo, né tantomeno in pericolo è il cinema: perché accanto ai film prodotti da Kevin Feige, deus ex machina dei Marvel Studios, continuano ad essere prodotti e ad uscire capolavori elefantiaci come Babylon, Tár, Holy Spider e The Quiet Girl, e questo giusto per restare nell’attualità e per dire che la Settima Arte è così larga che ci stanno dentro tutti.
È solo questione di buon senso (critico): prendere atto che un nuovo genere è nato, decodificare i suoi canoni, studiarne gli eccessi e le virtù, capirne i meccanismi e come sta incidendo sul mercato.
Perché non è vero, come vorrebbe qualcuno, che i film dei supereroi sono tutti uguali, tutti medi(ocri): sono un genere, o un sottogenere, come la rom-com o lo slasher, ed ecco che ne escono fuori esempi altissimi e altri bassissimi.
Ant-Man & The Wasp: Quantumania è il film che apre ufficialmente la Fase Cinque, visto che ormai tutti sanno che i film Marvel vanno avanti ragionando per macrostorie sviluppate in fasi. Mentre quella appena conclusa con Wakanda Forever, piccolo gioiellino screziato al di fuori di ogni schema superomistico che rifletteva sul lutto, era andata avanti a singulti per colpa della pandemia, di una produzione pantagruelica spalmata male e soprattutto ragionando sulla famiglia d’oggi (WandaVision, il serial angolare che l’aveva inaugurata, parlava di genitorialità negata; Mrs. Marvel di radici, così come Eternals; e così via) – ebbene, questa quinta parte veloce come un fulmine con il concetto del Multiverso già pronto e spiegato a tutti.
Non per niente il personaggio centrale è Kang, un conquistatore multidimensionale che viaggia a proprio piacimento tra passato, presente e futuro, scivolando tra le realtà parallele: un villain a tutto tondo che si era solo intravisto nel finale di stagione dello show Disney Plus Loki e che ora si mostra nella sua grandezza per prendere il posto che fu di Thanos, altra grande nemesi cinematografica.
E mentre il personaggio fa da anfitrione nel Regno Quantico, dimensione subatomica della fisica quantistica che Stan Lee e Jack Kirby portarono alla fama nelle avventure dei Fantastici Quattro tra gli anni Sessanta e Settanta, chi volesse leggere e quindi capire un po’ di tutto quello che il film di Peyton Reed mette in campo potrebbe rileggere il paradosso del gatto di Schrodinger e quello di Einstein-Podolsky-Rosen (entrambi del 1935).
Perché nei film Marvel l’apparato visuale, pur tra risibili haters del web, è impressionante e mirabolante, nonché probabilmente fondante: fondendo insieme l’epos di George Lucas e il Dune di Lynch, Quantumania inventa un mondo e immerge i suoi eroi provenienti dai film che rileggevano l’heist-movie (i primi due Ant-Man), eppure non gli basta, perché prende i poli contrapposti attorno a cui ruota la storia (l’eroe e il suo contrario) e reimmagina il socialismo ai tempi dei Marvel Studios.
Di paragone in paragone, di eresia in eresia: “lottare significa esistere, rassegnarsi è come morire!”, diceva qualcuno ne Lo Scopone Scientifico di Comencini dove un immortale Mimmo Carotenuto spiegava il marxismo al bar la domenica pomeriggio.
E allora Reed mette in piedi una lotta di classe, una rivoluzione che ha i margini sfocati in un movimento che persegue l’emancipazione delle classi lavoratrici in una nuova struttura economica della società (tecnocratica). Certo, il discorso non è immediato ma mediato: perché nel film non è questo il punto, perché la narrazione corre per oltre due ore e non riesce sempre a mantenersi centrata senza sbrindellarsi qua e là, perché c’è un inizio e c’è una (non)fine e l’avventura di Ant-Man ha un obiettivo ancor prima di cominciare.
Ma è puro spettacolo, che perdipiù ha definitivamente traslato il meccanismo seriale dal piccolo al grande schermo, inventando un modo per fidelizzare un pubblico enorme e magari rinverdire i fasti del romanzo d’appendice, quando l’attesa per la prossima puntata era spasmodica.
Quantumania non vuole somigliare a niente e nessuno, e nella sua foga dimentica volontariamente di seguire pedissequamente la lezione di Endgame (uno dei film Marvel più celebrati da pubblico e critica) e invece calca la mano sulle sue caratteristiche più pregnanti e personali, come ha fatto Wakanda Forever, ma anche a suo tempo James Gunn con i suoi Guardiani Della Galassia, e anche Sam Raimi in Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia.
Che vuol dire sfruttare i supereroi per raccontare la società di ieri e di oggi ad un pubblico asfissiato da Tik-Tok, inventare nuovi scenari, correre su nuovi sentieri senza dimenticare i vecchi, insomma fare quello che il cinema ha sempre fatto: costruire o immaginare il futuro a misura d’uomo.
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