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L’ultima cena, laicissima e commovente, di Leonardo di Costanzo.

Un carcere in dismissione, una dozzina di detenuti ancora da ricollocare, in attesa di un trasferimento svanito all’ultimo momento. Pochi secondini costretti controvoglia a rimanere in loco, intrappolati nella struttura semi abbandonata per sorvegliare quei pochi reclusi che nel giro di pochi giorni o settimane dovrebbero ottenere una nuova sistemazione.

Il cinema di Leonardo di Costanzo, nato a Ischia nel 1958 ma formatosi a Parigi, sprigiona un’autenticità, dovuta ai suoi trascorsi da documentarista, e un’umanità fuori dal comune. Non ha mai avuto fretta l’autore partenopeo, giunto al cinema di finzione solo nel 2012 con L’intervallo, presentato al Lido nella sezione Orizzonti dove aveva ottenuto diversi premi collaterali, per poi aspettare cinque anni per il successivo lavoro, L’intrusa, presentato a Cannes e altri quattro per Ariaferma, il suo film più bello e compiuto, passato inspiegabilmente fuori concorso a Venezia dove a quanto pare gli sono stati preferiti altri titoli italiani – ben cinque – non certo perché meritassero di più ma in quanto capaci di produrre e generare un maggior chiacchiericcio mediatico. E così, dopo un passaggio semi-invisibile al Lido nel disinteresse generale, ci hanno pensato il tempo, che come sappiamo è galantuomo, e le ottime critiche ricevute a rendere il giusto merito a Ariaferma. Tra i tanti pregi di Leonardo di Costanzo, oltre a un magistrale uso degli spazi architettonici e a un sapiente lavoro in fase di scrittura coadiuvato da Bruno Oliviero e Valia Santella, c’è quello di aver diretto e messo assieme un cast perfetto, coi volti giusti e azzeccati nei vari ruoli, composto da attori non professionisti e interpreti di prima grandezza del nostro cinema come Silvio Orlando e Toni Servillo che si ritrovano – incredibile a dirsi – per la prima volta a lavorare insieme nello stesso film, impegnati in una gara di bravura che finiscono per vincere entrambi. Il primo è un detenuto non comune, un boss dai modi gentili e dall’indole acuta sfuggito per anni alla cattura, ossequiato e rispettato da tutti i carcerati. Il secondo è una guardia che si ritrova a fare le veci della direttrice del penitenziario già trasferita altrove, obbligato suo malgrado a fare i conti e gestire una situazione fuori dall’ordinario, cercando di tenere a bada gli animi dei reclusi, secondini o carcerati che siano, tutti accomunati dalla medesima condizione sospesa, quasi fuori dal tempo e dai regolamenti che dettano e accompagnano la quotidianità e la routine carceraria. Due persone vicine per età e provenienza ma con un percorso agli antipodi, diviso da quella linea sottile che separa la legalità dall’illegalità che li ha resi lontani e diversi, come ribadisce a muso duro la guardia Gargiuolo (Servillo) al detenuto Lagioia (Orlando), dopo l’ennesimo tentativo di avvicinamento di quest’ultimo. Eppure qualcosa inizia a cambiare in quel tempo sospeso che secondini e carcerati si trovano a vivere e passare assieme in quel luogo/non luogo, rafforzato dalla sua condizione di abbandono e dismissione. Leonardo di Costanzo ci mostra questo mutamento in cui lentamente subentra una forte componente empatica in una delle scene più belle, potenti e suggestive di questa nuova stagione cinematografica. Una sorta di ultima cena, magnificamente illuminata da Luca Bigazzi, in cui la distanza tra guardie e detenuti si riduce e assottiglia sempre più, finendo quasi per scomparire, prima che si ristabiliscano la normalità e la routine carceraria, sulle trascinanti note di Clapping Music di Steve Reich che ne assecondano il ritmo e i tempi perfetti. Un momento di puro – grande – cinema da mandare a memoria, capace di emozionare e di togliere il fiato.

Il cinema italiano, o meglio quello partenopeo come hanno certificato a Venezia le ultime fatiche di Martone, Di Costanzo e Sorrentino, sta attraversando una fase decisamente ispirata e positiva. Sarebbe bello e gratificante per questi autori e per il nostro cinema in generale se il grande pubblico se ne accorgesse e tributasse loro il giusto riconoscimento, affollando le sale (che dall’11 ottobre sono tornate alla capienza piena) per vedere sul grande schermo, ovvero nella loro collocazione naturale, Qui rido io, Ariaferma e È stata la mano di Dio.

voto_5

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.