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ARMAGEDDON TIME – IL TEMPO DELL’APOCALISSE

ARMAGEDDON TIME – IL TEMPO DELL’APOCALISSE

AT fotoX

Apocalittici e integrati.

Il tempo dell’Apocalisse dell’ex ragazzo prodigio del cinema americano James Gray non è di certo quello di cui parla Ronald Reagan alla televisione durante un’intervista, né quello della guerra nucleare che “ci aspetta” come dice Esther, la madre del giovane protagonista, a margine dell’elezione alla presidenza degli Stati Uniti dell’ex attore di Contratto per Uccidere, nel novembre del 1980.

È invece, in coerenza con una filmografia che ha spesso pizzicato le corde dell’intimismo e della ricerca interiore fino all’autobiografia quasi manifesta di quest’ultimo film, il tempo di un Armageddon tutto privato e per così dire atmosferico, vissuto nella presa di contatto da parte del giovanissimo Paul Graff (Banks Repeta, già visto in Black Phone) con i compromessi e le incoerenze di tutto quanto viene intorno a lui più incensato: l’America e le sue opportunità per tutti (ma non per Jonathan, l’amico nero di Paul), la famiglia, l’autorità, gli adulti in genere, misurati nella loro distanza da qualsiasi ideale autentico. Tra i suoi familiari, solo l’amato nonno è per Paul un punto di riferimento, uno spiraglio sulle sue speranze: la bellissima scena del parco, quando i due fanno decollare un razzo giocattolo e l’anziano affida al nipote le sue raccomandazioni, ha il senso di un passaggio del testimone più morale che generazionale. Anche se a ben vedere neppure il vecchio Aaron può sfuggire al classismo e alle contraddizioni dell’integrazione (la sua famiglia è d’origine ebraica e ha fatto relativa fortuna), di conseguenza fa pressioni e si schiera con i genitori per iscrivere Paul alla stessa scuola del fratello maggiore: fondata dal padre di Donald Trump, questa è dispensatrice di insegnamenti basati sulla tradizione e il duro lavoro per raggiungere il successo che non possono appagare un ragazzo introverso e già votato all’arte.

A Paul non rimane altra chance che fiutare l’aria che tira, insofferente agli ordini e alle regole, più costretto che incline a scivolare tra le linee e gli spazi che le cure del tempo gli permettono, come dimostra il magistrale ending in cui il ragazzo abbandona le retoriche e i proclami tromboni al loro destino (nel senso etimologico del termine di “ciò che sta, che è stabile”) per esplorare un cammino suo, precario e ancora indefinito. Paul Graff che fa sogni colorati e naif, come nella scena della visita al Guggenheim di New York, si trova a muoversi invece dentro orizzonti tendenzialmente monocromi come quelli apparecchiati dalla velata fotografia di Darius Khondji. Paul cerca prospettive in sintonia col suo animo teso alla perlustrazione del mondo senza schermi, farisaismi e caligini, ma deve destreggiarsi tra resistenze, chiusure, barriere più o meno visibili (quante volte in Armageddon Time scorgiamo il ragazzo circondato da reticolati?): il rap della Sugarhill Gang è una seduzione stonata e momentanea, un anelito interrotto proprio come il desiderio di fuga insieme a Jonathan in direzione Florida.

Tocca rimanere, ma tocca anche distanziarsi per non farsi fagocitare: dentro e fuori il sistema, un po’ come ha sempre fatto il regista fin dal suo esordio con Little Odessa. È una bella sfida, destinata a un certo grado di incomprensione, come accade anche con la sufficienza di molti che hanno accolto questo Armageddon Time come un’opera di transizione, immersa in una autofiction poco stimolante. Tant’è. Un giorno forse saremo maturi per studiare il cinema di Gray più dal punto di vista delle sue ricercate anomalie che da quello delle sue costanti.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.