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L’ipertesto e la morte.

Ad Asteroid City il mondo è già finito. I test atomici che si svolgono in lontananza (ma diciamo pure nelle vicinanze) e fanno tremare la cittadina-palcoscenico in cui va in scena la funerea pièce immaginata dal drammaturgo Conrad Earp delimitano il campo: quello da gioco (di Anderson e dei personaggi, presto isolati dalle autorità perché non rivelino il segreto del luogo, la discesa di un alieno) e quello della finzione teatrale, raccontata invece dal presentatore tv. Soprattutto, quelle esplosioni sono lì per rammentare costantemente la fine, la morte, l’annientamento come misura di tutto.

Un cinema più nichilista di quello di Wes Anderson oggi quasi di sicuro non c’è e non si può dare. E non è un complimento, benché tanti critici pascolino beati nel suo ricco nulla, magari con la scusa della presunta contemporaneità. La sua imperterrita, inalterabile struttura per mise en abyme non si scioglie mai in qualcosa d’altro, si rinserra prigioniera di sé e della sua arrogante insindacabilità, come i suoi carrelli e le sue inquadrature geometriche, così asfittici e cronici che non possono rimandare ad altro che all’identico e al già detto sopra sfondi cangianti che servono a variazioni aride e artistiche, nel significato peggiorativo del termine (si veda per questo l’esemplare The Wonderful Story of Henry Sugar, tratto da Roald Dahl, su Netflix, per certi versi la summa del metodo Anderson).

Quando i livelli narrativi si sovrappongono, liberano, “impazziscono” anche solo per qualche attimo (come avviene per esempio quando il personaggio di Bryan Cranston si ritrova per un momento ad Asteroid City stupendosi di essere lì e non nello studio televisivo) non è per manifestare una resistenza della storia alla dittatura formale della regia né per introdurre in senso produttivo raffinati procedimenti retorici come la metalessi. Hanno invece la funzione di aumentare in maniera artificiale il patetismo dei personaggi, farli vagare e interagire senza offrire loro un approdo di senso o una meta, spegnerne le implicazioni, ancorarli ad un microcosmo e a uno schema in sostanza cinico che è, manco a dirlo, quello sul quale il regista di The Royal Tenenbaums ha fondato pezzo per pezzo la sua tersa fortezza di figure narrative, citazioni compiaciute e temi ridondanti, ricorrenti, in ultima battuta consunti, che varia in plot più bizzarri e anodini che paradossali.

In questo modo, Anderson ha costruito nel tempo un ipertesto che può far pensare al postmoderno di Pynchon, uno dei nomi più gettonati, ma che è tutto fuorché liberatorio e, anzi, è politicamente retrivo (Anderson evita con abilità ogni sbilanciamento in tal senso) e volutamente astorico, per sancire l’assenza di un senso e di una verità: anche se poi i suoi film si collocano di fatto quasi tutti in un passato ben cesellato e in grado di evocare fantasmi verosimili, si tratti dell’isola dell’infanzia dove si svolge la fuga d’amore di Moonrise Kingdom, del mondo sull’orlo della Seconda Guerra Mondiale di Grand Budapest Hotel o del deserto degli anni Cinquanta di questo film, nel quale le forze armate americane non hanno (ancora) mai perso una guerra e si esercitano per fronteggiare anche gli alieni. L’ironia è fasulla anche quando colta, mentre il languore che sprigiona dal personaggio di Scarlett Johansson non penetra a fondo come potrebbe, preda della parcellizzazione dei tempi in scena che è uno dei marchi della factory andersoniana e che coglie inesorabile anche la “defunta” incarnata da Margot Robbie.

Un progetto che continua a ruotare sul suo asse e al quale si può anche cedere, per affinità emotiva o proprio per sfinimento, ne conveniamo. Ma che a chi scrive appare come un binario morto, il frutto di un’ingordigia artistica che si rovescia nell’inappetenza verso la comunicazione, sia pure di qualcosa di estremo e negativo. Chi si trova in sintonia, comunque, seguiti pure a giocare, come il gatto che corre appresso alla sua coda.

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.