Generazione liquida.
Le giornate di Daniele e di altri giovani ventenni come lui hanno pochi ma essenziali elementi in comune: prima di tutto il barchino (“La mia casa è il barchino” riflette il ragazzo), i motori, la velocità, qualche furtarello, le ragazze (ma queste ultime solo in subordine, come un accessorio meno prezioso), la ricerca di un significato per sé e la propria vita. Ma forse, più che di ricerca in questo caso, si tratta di esplorazione quasi inconscia di un significato, fino in fondo e senza compromessi.
Nell’esordio narrativo di Yuri Ancarani, filmmaker di Ravenna che passa al lungometraggio di finzione mantenendosi bene imparentato con le sue origini sperimentali nella videoarte, c’è l’osservazione spassionata di un romanticismo solipsistico e indenne che nei ragazzi protagonisti costituisce l’unico scudo all’insensatezza, l’unico ancoraggio per esistere davvero nel mondo. Perché il loro domani odierno, per dirla con Elio e le Storie Tese, ha come solo imperativo quello di andare al massimo, scivolare sopra le loro ansie da generazione liquida, impalpabile, celata agli occhi di chi non sa guardare, tantomeno vedere. La laguna veneziana non è mai uno sfondo, non è mai neppure un orizzonte: è la sostanza stessa del mondo, in una pregnanza metaforica che nel film non si fa mai ovvietà né distacco aristocratico da quanto mostrato. Non c’è in Atlantide nulla della tipica prospettiva turistica, niente campanile di San Marco, niente Canal Grande, niente Ponte di Rialto. Tutto è riflesso del mondo di Daniele e degli altri giovani: l’onnipresente trap, come il loro cuore che pulsa, ne definisce i confini. C’è solo istinto, senza nessuna mediazione.
L’idea è semplice, riprendere il sentimento selvaggio (del desiderio) dell’esistenza, ma la realizzazione è visionaria. Ancarani non filma Venezia, non filma l’acqua o le storie, tantomeno le incastra tra loro in un reale lavoro di accostamento. Punta invece a cogliere l’inafferrabile, l’anelito, il bisogno di ritagliare il tempo, di donargli una forma: ma senza cristallizzare alcunché. Daniele e i ragazzi come lui sono fuori dalla tirannia della cronologia, non hanno letteralmente passato, né questo ci viene mai sul serio raccontato, in un contesto che sembra non esserci proprio. Attraverso lo spaesamento che ne discende si creano le premesse per uno spettacolo che si situi fuori dalle strettezze del fatto di cronaca, oltre le colonne d’Ercole del “tema”.
Per guardare Atlantide sul serio occorre schiodarsi dalle abitudini agli eventi, dal vizio di rifarsi alla concatenazione delle vicende e concentrarsi solo sul momento e sulla visione. E prima dello straordinario trip finale che di Atlantide – di una possibile Atlantide, il continente perduto, il non luogo per antonomasia – è la materializzazione, già emergono in alcuni istanti dei frammenti di sublime che danno corpo sullo schermo all’abnormità e all’eccesso della vita di Daniele e degli altri come lui, ma anche le possibilità solitamente precluse allo sguardo ordinante e raziocinante. Un film che non racconta quasi nulla ma che sa portarci, se vogliamo accogliere il suo invito, dove la nostra ostinazione a voler capire e valutare risente delle sue stesse sciocche pretese, sciogliendosi come neve al sole.
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