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Hail Caesar foto2

W il cinema che salva il mondo, malgrado tutto.

A ripercorrere la filmografia dei fratelli Coen, il primo e più accreditato parente di quest’ultimo Hail, Caesar! appare naturalmente essere Barton Fink – È successo a Hollywood (1991), in prima istanza per la comune natura di spaccato della (fu?) macchina dei sogni.

Da quel film sono passati però venticinque anni, e anche se cercare echi interni alla produzione coeniana è come cercare tifosi di calcio in Brasile, la prospettiva è decisamente mutata. Mentre lo sceneggiatore Barton Fink era un intellettuale non allineato al quale toccava in sorte di scrivere copioni di seconda scelta, qui il main character è invece un professionista ben integrato nel meccanismo degli Studios, afflitto da mille sensi di colpa (si confessa in continuazione per inezie) ma capace di far funzionare in qualche modo la baracca destreggiandosi tra la visione dei giornalieri, i problemi dei vari set, gli scandali che minacciano di schizzare fuori dalle vite private dei suoi attori e infine il rapimento (con relativa richiesta di riscatto) di una delle star indiscusse dei Capitol Studios ad opera di una cellula comunista. Un uomo del fare, indispensabile in mezzo a tanti parolai inconcludenti e sbruffoni, abile a celarsi dietro le apparenze altrui, applicandosi nel suo lavoro e facendolo bene.

Qualora pensassimo a una lettura puramente autobiografica o leziosamente citazionista faremmo un torto all’intelligenza dei fratelli, ma se Joel e Ethan Coen dopo oltre trent’anni di carriera sentono il bisogno di sbozzare un personaggio come Eddie Mannix (Brolin in uno dei migliori ruoli della sua carriera), positivo ed energico nonostante i travagli interiori che lo affliggono, è segno che i molti uomini che non c’erano (o che erano ridicoli) del loro cinema hanno forse cambiato in parte la loro natura. Invece di essere vittime sacrificali e ombre in balia del capriccio di qualche divinità o della loro insignificanza, gli uomini di Hail, Caesar! sono sì tante volte marionette del sistema che le lega e ne tira i fili, ma non mancano di alzare la testa e agire e stupire positivamente: come quando, per esempio, è proprio l’attore di western Hobie Doyle, presentato come poco meno che un deficiente, a trovare il bandolo della matassa e permettere di risolvere il caso del rapimento di Baird Whitlock. O come quando l’attrice scioccherella interpretata da Scarlett Johansson si toglie dagli impicci da sola seguendo il desiderio e un impulso sentimentale improvviso e irresistibile. Piccole incrinature in una visione del mondo che rimane disperata e senza uscite, ma non così saccente nel suo nichilismo come in Inside Llewyn Davis.

Ma questo non è tutto, per quanto la rinuncia all’algido filosofeggiare sui personaggi sia in ogni caso un toccasana in un corpo autoriale che si stava facendo negli ultimi anni sempre più un totem inespugnabile, una fortezza costruita sul granito in cui per lo spettatore era impossibile trovare un qualsiasi minimo, consolante appiglio. Dato che, per paradosso ma non tanto, alla fine anche Mannix è un uomo destinato – volente o nolente – ad annullarsi dentro il suo lavoro, rimane il fatto che questo stesso lavoro è, nei suoi esiti finali, qualcosa di tangibile. I Coen, con la complicità del solito Deakins, non lesinano sull’evidenza assolutamente plastica di questo prodotto, riconcretizzando il classico (trascuro le discussioni che la parola può far nascere, intendendo con essa in generale le opere hollywoodiane degli anni 50) con spirito “di servizio” nei confronti di coloro che quel cinema lo hanno creato. Se gli esseri umani non sono in definitiva soltanto segni sull’acqua tracciati da un dito indolente o perfido, allora nemmeno le loro testimonianze, belle o brutte, sono prive di validità. Non che nel cinema dei Coen questo fosse un esito sempre e comunque conseguente, ma i due registi sembrano aver preso consapevolezza che per salvare dall’annientamento il loro mondo non c’è altro da fare che riconoscere il contributo non di rado sgangherato, involontario e assurdo di tanti piccoli e “oscuri” protagonisti di quel cinema medesimo. Oltre la Storia che abbiamo ormai interiorizzato sul periodo aureo del cinema hollywoodiano, ci sono tanti uomini e tante storie da raccontare (ed è sorprendente che altri film hollywoodiani contemporanei mostrino tracce di questa necessità di poetica, per esempio il molto sottostimato Exodus di Ridley Scott). Persino i cospiratori guidati da Marcuse, benché tratteggiati senza eccessivo garbo o simpatia (ma la scena del sommergibile sovietico è tra le più rilevanti e solide del film), ne fanno parte a loro insaputa.

Nostalgia? Credo proprio di no (i Coen la nascondono bene in tal caso), ma in un (micro)cosmo oliatissimo e terribilmente dominato dalla gelida ironia come è quasi sempre stato quello degli autori di A Serious Man, non si può proprio dire che essa sarebbe il peggiore dei mali.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.