Gli Avengers, il “gruppo più potente dell’universo”, si sono sciolti. E i membri sono dispersi ai quattro angoli del globo: Scarlet e Visione in Inghilterra, a provare a costruire il loro rapporto sentimentale; Soldato D’Inverno in Wakanda, a riprendersi dopo la sconfitta; Capitan America, Falcon e Vedova Nera lontani dal clamore delle battaglie, a farsi crescere la barba o a tingersi i capelli di biondo; Occhio Di Falco e Ant-Man agli arresti domiciliari, Hulk e Thor in giro per lo spazio, Iron Man a coltivare la sua relazione con Pepper. Una nuova vita per ognuno, insomma, messi a dura prova dall’esistenza, perché come diceva qualcuno (e come ha brillantemente intuito il genio di Stan Lee settant’anni fa) da grandi poteri derivano grandi responsabilità, e l’insostenibile leggerezza dell’essere schiaccia ancora di più chi ha facoltà speciali. Cosa mai potrà riunirli, se è stata proprio l’ideologia (la guerra civile dei supereroi: fino a che punto si è disposti a vendere la propria libertà, per la sicurezza?) a separarli? Ci pensa Thanos: il Titano Folle, l’essere viola che da dieci anni circa scorazza nelle scene post titoli di coda dei film dei Marvel Studios alla ricerca delle sei Gemme dell’Infinito, per un piano che è poi una filosofia di vita. E di morte.
Impresa titanica, letteralmente: come quella dei fratelli Russo, demiurghi dell’ultima frangia creativa dei Marvel Studios, che certosinamente hanno costruito e adesso mostrano in gran spolvero questo monumentum aere perennium, uno dei film più costosi ed enormi (per ambizioni, struttura, lavorazione, risultati) che il cinema moderno ricordi, un’opera maestosa lunga più di due ore e mezza ma non fluviale, proprio enorme.
È risaputo che, grazie ad un’attenta strategia di marketing, ma anche a creativi che sanno il fatto loro, i Marvel Studios hanno lentamente ma inesorabilmente cambiato il modo di fare cinecomics: da giocattolone per young adult a genere che reinventa i generi, li rimasterizza e li restituisce più scintillanti. Heist movie, sci-fi, blaxploitation, cinema politico: tutti insieme a formare quest’universo condiviso che mostra il suo volto ora con un film che in pratica aspettavamo da dieci anni, e che proprio i fratelli Russo costruiscono ad uso e consumo del fan service ma con un occhio attentissimo alla qualità.
Su un livello prettamente tecnico, poi, Avengers: Infinity War è straordinario per come sceneggiatori e registi hanno saputo e voluto assemblare una storia con diciotto personaggi differenti – insieme ad un procione e un albero – tutti con una fisionomia ben definita, tutti con un loro spazio e tutti con la loro personalità filmica, che si mescolano, anzi si assemblano per far fronte comune senza rinunciare alle loro individualità. E sempre a proposito dei personaggi: due o tre colpi di scena sono davvero ben piazzati e regalano divertimento ai fan più accaniti e non. Ma ci sono anche un paio di sequenze in cui il cuore sobbalza per fremiti emozionali non propriamente legati alla storia: in particolare, l’ultimo abbraccio di Spiderman e Iron Man è qualcosa di delicato e struggente, inaspettato e violento, è un momento di cinema e di racconto che resta impresso.
Thanos è un Titano Folle, è un essere di oltre tre metri dalla pelle viola e dal mento bislacco: ma è un genocida con un’idea precisa in mente, un assassino senza scrupoli che, mentre soffiano venti biblici, sacrifica la figlia per un potere che è (anche) conoscenza, è un personaggio gigantesco e tridimensionale non solo grazie alla CG ma anche e soprattutto per una componente psicologica non da poco.
“Narcisista sociopatico e shakespeariano”, Thanos è indiscutibilmente metafora assoluta della volontà di potenza che sfida l’ultraterreno e fa i conti con la divinità, pagandone i prezzi più alti, unificando in maniera spettacolare l’idea di narrazione e quella di industria, di concezione filosofica del mondo e addirittura di spiritualità. Un villain a tutti gli effetti, perfetto e profondo: che piange e soffre, e che con uno schiocco di dita aggiusta l’universo come lui pensa dovrebbe essere.
Non è in fondo quello che ognuno di noi vorrebbe fare? Non è quello che, in preda allo sconforto o alla vista delle tante storture, chiunque si ritenga giusto vorrebbe avere il potere di fare incidendo su una realtà sbagliata? In fondo è sempre solo una questione di punti di vista: questo alla Marvel lo sanno bene, se hanno fatto litigare i due personaggi più iconici (Capitan America, sentinella della libertà, ideologo e “comunista”; e Iron Man, capitalista, tecnocrate, materialista) per le divergenze etiche sul loro ruolo in un mondo che rifugge la morale spaventato da problemi più grandi di lui.
Ed ecco che allora non poteva che essere proprio lui, Thanos (il cui nome riecheggia non a caso il concetto di greco), a mettere la parola FINE alla cosiddetta Fase Quattro, quella che probabilmente indirizzerà le trame su un versante cosmico (se l’unica scena post-crediti rimanda i più attenti allo spazio e al prossimo film, Captain Marvel, un motivo ci sarà…), cambierà status quo dei personaggi di questo enorme universo condiviso – idea insieme folle e geniale, mutuata da Stan Lee e ripresa oggi sullo schermo -; ma che riporta ad un altro grande, forse il più importante, risultato di questo Avengers: Infinity War. Senza mezzi termini e preamboli, questo film è un unicum nella storia del cinema moderno e non, per tutto quello sopra detto, ma anche perché il cinema con la Marvel ritorna ad essere un grande evento condiviso, un rito comune, un momento in cui in tutto il mondo l’appassionato si ferma e va in sala, per assistere all’opera cinematografica tanto attesa. E non è davvero cosa da poco: l’attesa, l’hype, il momento della scoperta rimandato che abilmente scarta il web e fa ritrovare tutti in sala, sono tutte componenti di un rito che con l’avvento di Internet erano andate perdute, che si stavano dissolvendo con l’inevitabile diverso utilizzo che dell’oggetto filmico oggi si fa. Avengers: Infinity War sancisce il ritorno ad un certo tipo di concezione dello spettacolo, con il ritorno nel buio del cinema per avere tutti nello stesso momento, con lo stesso film, la stessa emozione.
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