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BABYLON: UN SECONDO PUNTO DI VISTA

BABYLON: UN SECONDO PUNTO DI VISTA

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Babylon: Perché sì.

Alla fine del VII e poi nel VI secolo a.C., il regno di Babilonia raggiunge il suo apice sotto il re Nabucodonosor II, finendo per estendersi fino al vicino Oriente antico. Allora Babilonia era la più grande città del mondo conosciuto, su un’area di 10 km2 con un prestigio che arrivava oltre la Mesopotamia anche grazie alle mura e ai giardini pensili. La città occupa un posto speciale per il mito legato al suo lento declino, sostenuto da diversi scritti biblici e in quelli degli autori greco-romani.

Facile, nel 1959, per Kenneth Anger assimilare Babilonia con Hollywood, unendo i due nomi in un titolo oggi proverbiale, Hollywood Babilonia, un libro che tracciava i confini della storia di tutti gli scandali e dei più squallidi retroscena della colonia cinematografica della Mecca del cinema, dagli esordi fino alla fine degli anni Cinquanta. Andando a mente, sono pochi i film impressi nell’immaginario collettivo che riempiono il serbatoio di memoria riferito a quel periodo e a quella zona: Viale Del Tramonto, ovviamente, e poi forse L.A. Confidential e Chinatown.

Babylon di Damien Chazelle torna in quei luoghi e in quelle zone, e pur riprendendo quel periodo gira la versione oscura e barocca del capolavoro di Billy Wilder: in un film enorme, pantagruelico, monumentale, che è prima di tutto un atto, una dichiarazione d’amore e soprattutto di passione per il cinema. E ne riprende giustamente la storia dalle fondamenta, scegliendo il periodo di passaggio più drammatico (quello dal muto al sonoro) per poter puntare le luci dei riflettori su una delle caratteristiche principali e fondanti delle immagini: la loro caducità. Che si estende alla fragilità della vita e di tutto quello che la circonda, arrivando a coprire ovviamente anche il senso profondo del cinema, il tentativo di catturare in un fotogramma il tempo che passa e di fermarlo. Chazelle preme il pedale dell’acceleratore e sfonda il muro del suono: una valanga sensoriale, dove La La Land si fa contaminare dal tappeto sonoro di Whiplash e crea un monumentum aere perennius, un moloch autoriale e cinefilo, una struttura simile per ambizioni alla torre di Babele e ugualmente fragile e imponente.

Ancora prima del titolo, Babylon mette in scena un baccanale che suggella l’incipit: che riecheggia i mix psichedelici distribuiti di ioscina e morfina nelle feste di Cecil B. De Mille che ha come set il Castello di Shea, dal 1926 luogo dei party più frequentati. Babylon continua imperterrito ponendosi come un film locale: perché sceglie di geolocalizzarsi alternativamente in due luoghi, i set e le sale, ambienti nei quali si dipanano le vite dei suoi protagonisti. E anche qui, il ricalco è documentaristico e creativo insieme: Brad Pitt (incredibilmente emotivo) con i cardigan di John Gilbert, Margot Robbie (che sfodera un magnetismo felino) con la salopette di Clara Bow, e così via.

Hollywood come il Far West: terra di frontiera dove i baccanali privati anticipano e preconizzano il baccano del sonoro, luoghi e scenari da conquistare prima, imborghesire poi. Se poi va cercato un minimo comune denominatore nell’esigua e già strabordante filmografia del regista, ecco che Justin Hurwitz firma un commento musicale onnipresente, ossessivo, magniloquente; e anche magnifico, illuminante, come un tamburo che segna il ritmo, tiene il tempo, sottolinea gli sguardi e le azioni, si incunea tra le immagini e le sorregge impregnandole. Passando da colonna sonora a colonna di un’opera spropositata anche nella durata (190 minuti).

C’è un po’ tutto, nel Babylon di Chazelle: ma soprattutto c’è una passione che trasuda da ogni fotogramma. Anche nei virtuosismi del montaggio, a volte troppo esibiti, che vengono inondati dalla temperatura emotiva di un racconto che, come in un viaggio onirico, parte dalle parole del protagonista Manny (Diego Calva, che vuole fare il cinema perché dentro il cinema c’è la vita e c’è il suo contrario) e fa tappa in ogni genere, dal biopic al film in costume, dal my fair lady al musical all’horror – in una delle sequenze più indigeribili, la fuga di Manny e James McKay (un perturbante Tobey Maguire) nei sotterranei dove le orge sconfinano negli snuff tra sesso bestiale, deformità e abissi umani. Per sgorgare furiosi nelle ultimissime sequenze: quando si guarda alla sci-fi riecheggiando il 2001 di Kubrick, e in un trip cromatico ci si inginocchia davanti a Woody Allen e Hannah e Le Sue Sorelle, John Hurt, David Lynch ed Elephant Man, Gene Kelly e Cantando Sotto la Pioggia, Greta Garbo e Marilyn Monroe. Tutto il cinema che è stato, tutto quello che il cinema è. Vicino, troppo vicino, vicinissimo alla vita.

voto_4

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.