La Babilonia di cartapesta.
Babylon è uno di quei fallimenti così limpidi e così eclatanti che fanno tenerezza a qualcuno. Che finiscono cioè col fargli dire che no, che siamo noi che non l’abbiamo capito, quando in realtà il guaio è proprio il contrario, che l’abbiamo capito benissimo.
Ci sono film che vogliono troppo con troppo poco e li amiamo soprattutto per questo: la carriera di Abel Ferrara, per dirne uno, sarebbe molto meno interessante altrimenti (ma pure un Paul Schrader, per esempio, ha i suoi begli infortuni in questo senso). Babylon invece vuole irrealisticamente tantissimo con troppo, che poi fa sorridere per quanto sia poco di per sé: è il lavoro di un autore, Damien Chazelle, che ormai si sente libero di sbrigliare il suo talento senza controllo, per raccontare qualsiasi cosa voglia, anche oltre le sue forze. E cade in modo fragoroso, perché la massa spropositata, satolla e grossolana di quello che c’è nel suo film non sa restituire il sentimento di quello che ci fu davvero nei tempi della Golden Age che racconta. In quell’euforia c’è già tutto, c’è un’infinità di stimoli epidermici, cosa dovremmo ancora metterci noi che osserviamo?
Pronti, via: e dopo pochi minuti un elefante spruzza con le sue deiezioni i malcapitati che lo stanno portando a una festa in villa. Che divertimento, eh. Al party, più tardi, una delle ragazze presenti si diverte a fare pissing su un uomo nudo. Yu-huh. Vomitiamoci addosso ogni cosa. Ed è solo il principio, qualsiasi effetto sorpresa non ha cittadinanza qui. Trasgressione, orgia, droghe, depravazione, delitti, suicidi: casomai non lo sapessimo o l’avessimo dimenticato, il tronfio ed ebbro Chazelle ci squaderna un po’ di tutto questo per caratterizzare la sua lettura di quella Babilonia hollywoodiana che Kenneth Anger descrisse con tanta durezza, ma che le immagini del regista di La La Land fanno sembrare invece di cartapesta.
Un’opera che cerca invano lo spettatore, nel senso del suo coinvolgimento “fisico”, emotivo, sensoriale: a cosa servono altrimenti tutti quegli stolidi e ubriacanti piani sequenza che vorrebbero pungere gli occhi di chi guarda con i baccanali del bel mondo hollywoodiano tra la fine degli anni Venti e l’inizio dell’epoca del sonoro? Quel brulichio caciarone e insistente suona un po’ imparaticcio, facilone e non è nemmeno ribaldo: la febbre che corrode uno star system sfrenato e debordante quanto sconsiderato resta sullo schermo ma non ci lambisce mai, poco importa che pur di strizzarci l’occhio e contagiarci d’entusiasmo Babylon citi e alluda di tutto e di più, anche fuori dal seminato, da Viale del Tramonto a Pulp Fiction. Ci importa poi veramente di riconoscere i reali protagonisti intuibili dietro la finzione? Piuttosto, rimpiangiamo John Gilbert e Gloria Swanson, Dorothy Arzner e Cecil B. De Mille se siamo spettatori piuttosto avveduti; un divertissement meno ingordo se siamo anime più candide.
Damien Chazelle con Babylon ha dimenticato di cercare la via per il nostro cuore. O meglio: ci ha provato solo, più che con le sopravvalutate scene dei ciak sul set e con le storie dei vari personaggi, con quella ultima parte nella quale per tutti i suoi protagonisti c’è l’ora della resa dei conti con ciò che sono diventati e con quella Hollywood che li ha risputati fuori senza riguardo e tantomeno pietà. E se gli addii silenti di Jack Conrad e Nellie LaRoy possiedono comunque una loro dignità (anche perché Brad Pitt e Margot Robbie sono davvero in parte), la sequenza finale che celebra la nostalgia di quella Hollywood degenera in ecumenica giustificazione. Il pianto dell’ex produttore esecutivo Manny di fronte a Cantando sotto la pioggia, come molti di noi potrebbero fare davanti a un mucchio di altri film (altra, e macroscopica, sottolineatura non necessaria), ci dice che possiamo odiare la realtà e la nostra stessa vita, ma il cinema ha uno e mille modi per consolarci, come un demone tentatore. Ma dai? Che bella scoperta.
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