L’Orso d’Oro è un controverso film dalla Romania.
Su grande schermo, del prolifico Radu Jude (10 film solo negli ultimi 10 anni, escludendo una manciata di corti) non si è praticamente visto nulla (1), e solo chi l’ha seguito come ha potuto, potrà rendersi conto che Bad Luck Banging or Loony Porn, è praticamente un punto d’arrivo nella sua filmografia, in cui tutte le tendenze mostrate prima (dialoghi serrati, documentario non-lineare tra le più evidenti) convergono. Non a torto si è spesso tirato in ballo il nome di Jean-Luc Godard, ma il paragone è rimasto senza un vero approfondimento.
Partiamo dall’inizio: la scritta che apre il film (sketch per un film popolare), richiama, ad esempio, La Cinese, il quale era un “film en train de se faire”; la sua struttura tripartita è analoga alle opere del gruppo Dziga Vertov, in cui si rifacevano più a un’ideologia che all’abusata teoria di Aristotele. Ma anche dal punto di vista contenutistico le consonanze continuano: la prima parte fa proprio il senso di Si salvi chi può (la vita), nella presenza costante nei discorsi del sesso, che permea in modo a-normale il proprio modo di vivere, riflettendosi in un mondo caotico che va a pezzi; la seconda mostra la lezione del montaggio libero e asintattico, per vaghi accostamenti di senso, di materiali riciclati, girati apposta o ritrovati, che Godard ha inaugurato prima nell’era del video e che ha portato poi alle estreme conseguenze, tra 3D e Youtube, nei suoi ultimi due lungometraggi (Addio al linguaggio e Le Livre d’Image). Per la terza parte, trovate voi il corrispettivo (il battibecco Piccoli/Bardot in Il disprezzo?). C’è anche chi, nella propria storia del cinema, non dà alcuna importanza a questioni come il linguaggio, ma pretende dai film solo una narrazione. O una storia, appunto. Radu Jude dimostra con tre stili diversi di voler portare oltre il cinema e il modo di esplorare una storia. Le parole che dividono in brevi capitoli la seconda parte, oltre ad avere un precedente forse in Borowczyk (Le dictionnaire de Joachim, 1965), sono un modo per far emergere l’inconscio storico-culturale in cui prende forma l’ostracismo che la sessuata Wonder Woman della porta accanto sarà costretta a combattere nel terzo sketch. Ciò è possibile solo con un montaggio sperimentale che riscrive i rapporti causa/effetto e, a nostro giudizio, è quanto di più intellettualmente stimolante e coscenziosamente libero si sia visto negli ultimi anni.
Tema principale di tutte le opere di Jude è il passato della Romania e come con questo i suoi abitanti si relazionano. Già nel bellissimo I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians (2018) mostrava il travaglio di una donna che voleva semplicemente ricordare alla propria gente come fu forte il legame con la Germania nazista (2), e della lotta che la stessa in quanto regista doveva affrontare con gli apparati statali e l’opinione pubblica. In Bad Luck, usa il sesso, la sua rappresentazione e l’assenza di pudore come bomba innescata per far saltare in aria tutte le apparenze, mostrare cioè come nel 2021 esso sia ancora tabù, non al cinema ma nella vita quotidiana: un gesto naturale e a suo modo innocente serve ad etichettare come puttana una donna come tante altre, con tanto di lavoro rispettabile a rischio. Tabù, la pornografia, anche nell’ambito della critica cinematografica, se si esclude Nocturno e qualche raro libro accademico. Gli studi dedicati ad una delle forme dell’audiovisivo più consumate in Italia non sono approfonditi e prendono alla sprovvista il critico poco aggiornato quando si trova davanti una scena pre-titoli come quella di questo film. Non è una novità, si dirà: dalla Breillat a Kechiche, il sesso, a vedere i film delle sezioni parallele dei festival europei, è ormai un must del cinema d’autore al passo con i tempi. Qui però Radu Jude fa qualcosa in più, abbassa il livello della rappresentazione per portare il realismo all’interno di un film che vuole concretamente ancorarsi alla quotidianità, facendo il paio con le mascherine anti-Covid (e anche dei rimproveri sul suo uso corretto) e con le panoramiche della prima parte sulla città che tenta di ri-vivere, tra il traffico e i palazzi devastati. La scena iniziale porno è infatti a bassa definizione e in soggettiva: perché girarla “bene” se è l’epicentro su cui ruoterà tutto il film? Sarebbe stato ipocrita relegarla al fuori campo. L’obiettivo di Jude è, quindi, quello di fare un film-saggio su come l’appiattimento di tutte le informazioni uniformino l’alto e il basso, così che anche la sessualità di una maestrina assume la stessa importanza dei massimi sistemi. Bad Luck Banging diventa anche un grande trattato sulle immagini e le informazioni che portano con loro, sull’effetto che esse hanno nel nostro Occidente, senza moralismo ma anzi con grande ironia triviale e popolaresca. Arrivando al punto, quindi, che non esistono né immagini giuste né giusto delle immagini come sosteneva il gruppo Dziga Vertov; invece ognuno vive in base a tutto ciò che confusamente ha tratto dai miliardi di immagini che pervadono il suo quotidiano. E l’architettura è complessa, parodiando anche teorie complottistiche (particolarmente spassosa quella su Hitler) e rivelando, in altri punti, realtà inaudite. Bad Luck Banging è tutto questo o, più semplicemente, avanguardia per le masse cresciute tra Vice, stand-up comedy e Pornhub. L’affresco più sincero di cos’è l’Occidente, oggi.
(1) Salvo la scelta di Mubi di distribuire Uppercase Print dell’anno scorso. Da un lato è una scelta encomiabile, ma col suo alternare (partendo da un veritiero fatto di cronaca) spezzoni con logica blobbistica e teatro post-brechtiano, è dall’altra un buon modo per allontanare lo spettatore dal suo cinema.
(2) Tema su cui tornerà in uno dei suoi documentari più ostici, The Dead Nation (2017), che dal punto di vista linguistico (immagini d’epoca fisse accompagnate dalla lettura del diario di un testimone) ricorda un corto del maestro di un’altra nouvelle vague (Il diario di Yunbogi, 1965, Nagisa Ōshima).
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