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BARKING DOGS NEVER BITE

BARKING DOGS NEVER BITE

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Il film d’esordio di Bong Joon-ho finalmente in Italia.

Yun-ju, assistente universitario che agogna una cattedra da professore, è talmente avvilito e frustrato da rapire un cane del suo condominio, colpevole secondo lui d’infastidirlo coi suoi guaiti, per tentare di ucciderlo. Dopo la sparizione di un altro cagnolino, la giovane Hyun-nam, impiegata nello stesso condominio, inizia a indagare su questi strani fenomeni.

A distanza di 23 anni dall’uscita in Corea del Sud, arriva per la prima volta nei nostri cinema, distribuito dalla PFA Films, Cane che abbaia non morde, il lungometraggio d’esordio di Bong Joon-ho. Non è la prima volta che i film del regista premiato con l’Oscar per Parasite, ospite a inizio aprile del Florence Korea Film Fest dove ha tenuto una masterclass, vengono distribuiti con notevole ritardo in Italia. Il precedente record apparteneva a Memories of murder, il secondo film di Bong giunto con 17 anni di ritardo nelle nostre sale, a febbraio del 2020, proprio grazie all’exploit alla notte degli Oscar di Parasite.

In apparenza Cane che abbaia non morde può sembrare una commedia libera e anarcoide come il suo score musicale caratterizzato da una partitura jazz dal ritmo sincopato. In realtà vi si ritrovano già gran parte delle tematiche care a Bong che verranno riprese e sviluppate nelle opere successive, dalla critica alla società coreana dove la corruzione la fa da padrona e la precarietà del lavoro si riflette nelle relazioni sociali e sentimentali, all’inadeguatezza e al malessere del singolo, affetto da infelicità e frustrazione a causa di un sistema spietato, cinico e iniquo a cui è destinato a piegarsi o a soccombere. Barking Dogs Never Bite, titolo internazionale del film, faceva già intravedere in nuce l’incredibile talento di Bong, il suo modo unico e peculiare di mettere in scena e raccontare una storia modulandola su toni bizzarri e registri grotteschi, con accelerazioni improvvise e folgoranti come il forsennato e travolgente inseguimento per le scale e gli infiniti corridoi del condominio dove si finisce nei territori del puro slapstick o nel campo dell’animazione in stile Willy il Coyote e Beep Beep.

E non è certo un caso o una semplice coincidenza se il primo film diretto da Bong Joon-ho ha visto la luce all’inizio del nuovo millennio, in un anno fatidico – il 2000 appunto – in cui la cosiddetta Hallyu, la korean wave che sancì una vera e propria rinascita artistica per il paese, conosceva uno dei suoi apici dopo i primi barlumi, sul finire degli anni ‘90, ai festival internazionali per merito di cineasti come Kim Ki-duk, Lee Chang-dong e Hong Sang-soo. Oltre a Cane che abbaia non morde nel 2000 escono i seminali Joint Security Area di Park Chan-wook, The Foul King di Kim Ji-woon, Peppermint Candy e Oh! Soo-jung dei già citati Lee Chang-dong e Hong Sang-soo mentre a Venezia arriva in Concorso lo sconvolgente L’isola, il quarto lungometraggio di Kim Ki-duk. Dei principali esponenti della Hallyu, Bong è quello che negli anni a venire ha avuto maggior fortuna a livello internazionale, l’unico in grado di adattarsi a logiche e sistemi produttivi lontani e diversi da quello coreano, senza snaturare il suo cinema o annacquare la sua poetica.

Fin da questo suo folgorante lungo d’esordio, Bong Joon-ho ha dimostrato interesse nell’indagare la natura e la società umana attraverso il ricorso ai generi, partendo dalla commedia nera e satirica per poi passare al thriller in Memories of Murder, al monster movie per The Host, al melodramma in Madre e alla fantascienza distopica di Snowpiercer. Ogni suo film rappresenta un atto di accusa, amaro e feroce, nei confronti del genere umano e di una società malata e malsana, a partire proprio da Cane che abbaia non morde in cui nel fatiscente scantinato del condominio-formicaio si nascondono i senza tetto, i poveracci, gli emarginati relegati ai bassifondi che ritroveremo poi in Parasite, nel medesimo schema verticale e classista.

È indubbio che Bong avesse le idee chiare fin dal suo debutto dietro la macchina da presa, in cui ha dato prova da subito di possedere uno sguardo lucido e disincantato nei confronti del genere umano e dei meccanismi che ne regolano e scandiscono la sfera sociale. Una visione senz’altro pessimistica, o forse sarebbe più appropriato definirla realista, che per certi aspetti – fatti i dovuti e necessari distinguo – lo avvicina e accomuna a Rodrigo Sorogoyen, uno dei registi più interessanti e promettenti del cinema europeo contemporaneo. Due autori a tutto tondo che portano avanti un discorso preciso, complesso e coerente attraverso l’utilizzo efficace e intelligente del cinema di genere, che dimostrano di conoscere e amare profondamente.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.