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BASTA VINCERE – BLUE CHIPS

BASTA VINCERE – BLUE CHIPS

Blue-Chips-Nick-Nolte

Pagare e vincere o vincere e poi pagare?

C’è qualche cosa di salvifico nell’ultima sequenza di Blue Chips – Basta vincere che ricorda il finale di L’esorcista, quello in cui il tormentato Padre Karras restituiva l’innocenza alla posseduta Regan, facendosi carico di tutte le afflizioni del maligno appena prima di procurarsi la morte. E probabilmente è lecito partire da qui nel collocare all’interno della sua carriera il quattordicesimo lungometraggio di Friedkin – suo secondo film a tematica sportiva, non certo tra i suoi più personali, sebbene fortemente voluto dopo il documentario per la televisione del 1965 Pro Football.
Siamo nel 1994, e Friedkin, alla ricerca di un film su commissione, si affida alla sceneggiatura di Ron Shelton, specialista in film sportivi, per portare sullo schermo questa parabola di colpa e redenzione all’interno del basket universitario americano. Pete Bell (un mirabile Nick Nolte ricalcato sulla figura del coach di Indiana Bobby Knight, che compare alla fine) allena una squadra non più vincente come in passato e, nonostante la questione non lo lasci dormire tranquillo, cede alla pratica scorretta, seppur diffusa, di elargire denaro per reclutare i migliori talenti sulla piazza (le blue chips del titolo: rari atleti di prima classe e dal valore potenziale elevatissimo). Bell, che è personaggio friedkiniano per eccellenza, retto e ligio al suo dovere come poteva esserlo Papà Doyle in Il braccio violento della legge, raggiunge ben presto la consapevolezza che l’amore per lo sport e il cuore, che insegna a mettere sul campo ai suoi ragazzi ancor prima degli schemi di gioco, non sono più sufficienti se non si possiede la qualità (termine caro ai giornalisti sportivi nostrani), ovvero i migliori giocatori. E per averli è necessario pagare un prezzo, superare un limite.
Ed è proprio su questa linea di demarcazione, a volte ambigua, che cerca di lavorare il regista. Quella che viene oltrepassata per la prima volta da coach Bell e quella che la stessa società americana pone, forse in maniera spicciola, tra sport professionistico e scolastico. Infatti, nonostante la pratica di pagare sottobanco i migliori atleti uscenti dalle scuole superiori sia risaputa, risulta inaccettabile in quanto lo sport scolastico è ancora ritenuto fondante nella costruzione dei valori dell’individuo ed essenziale al processo di maturazione. Si discosta dai contratti faraonici e dal capitalismo spinto propri dello sport professionistico, ma solo ufficialmente, poiché gli atleti universitari stessi ricevono pressioni mediatiche e generano introiti equiparabili, seppur con le debite proporzioni, a quelli della ribalta principale. Come sottolinea il personaggio di Happy, luciferino squalo responsabile del programma che elargisce tangenti ai giocatori, forte della motivazione per la quale le istituzioni educative e i media guadagnano ingenti somme grazie agli atleti ai quali non è riconosciuto niente. In fondo, tutta la baracca si regge su di loro, quei soldi sono un loro diritto.
Questa ambiguità è espressa soprattutto dalla messa in scena dell’America più profonda – quella che attraversa Bell alla ricerca di talenti – e che forse rappresenta uno dei punti di forza del film, più della vicenda del protagonista stesso. Friedkin infatti, nella prima parte ci mostra i sobborghi di Chicago o i bassi fondi della Louisiana come paesaggi di un’America rurale e provinciale in piena evoluzione e soggiogata dal denaro che le luci della ribalta, sebbene lontane, sono in grado di offrire. La provincia diventa così solamente un ingranaggio sporco e malfunzionante della macchina capitalistica capace di contaminare anche le perle più pure. È la sorte che spetta a Tony, pupillo di Bell, che rivela al suo allenatore di essere stato comprato durante una partita disputatasi anni prima. Ciò serve da innesco, un po’ programmatico forse, alla reazione di repulsione che Bell matura verso il mondo sportivo, ormai corrotto, e che conduce alla sua ammissione di colpevolezza. Durante la conferenza stampa post partita del finale, dal sapore decisamente troppo plateale, Bell confesserà l’illecito. E lo farà mettendo su uno show, che poi è quanto si chiede a un uomo di campo scafato come lui, che in panchina indossa sempre la divisa di squadra – al contrario di molti “eleganti” colleghi – e si veste a festa impomatandosi solo quando c’è da convincere le famiglie dei ragazzi a farli giocare per la sua squadra. Sbugiarderà, certamente, anche il “cattivo” Happy ma si addosserà tutte le colpe (da qui il riferimento iniziale a L’esorcista, anche se ovviamente il film non è paragonabile quanto a urgenza morale) ribadendo il suo amore per lo sport che lui stesso ha tradito, come aveva fatto in precedenza mentendo alla sua ex moglie, anche lei presente alla conferenza stampa, e alla quale è sempre stato fedele nonostante il divorzio.
E della messa in scena che dire? Friedkin è regista di assoluto talento e di grandissima esperienza, tuttavia il film non presenta quasi mai quegli scarti di ritmo necessari ad incendiare la pellicola, come ci si aspetterebbe da un cineasta come lui. La regia è in alcuni tratti vibrante, ma a volte i cambi di scena appaiono un po’ telefonati ed eccessivamente facilitati da un’accattivante colonna sonora blues (con l’aggiunta di grandi successi firmati Hendrix, CCR e Van Morrison), ma mai in grado di allargare lo spazio filmico. Ciò che risulta sopra la media sono sicuramente le sequenze delle partite (a maggior ragione se si pensa a quanto sia difficile mettere in scena lo sport di squadra). Friedkin, affidandosi anche a due future stelle dell’epoca come Penny Hardaway e Shaquille O’Neal (gustoso come venga filmato quest’ultimo, sempre in bilico tra spettacolarità e divertita riverenza nel sottolineare le sue sovrumane qualità fisiche, quasi in maniera circense), sa rendere i confronti tra le squadre in maniera realistica, mantenendo però un ritmo incessante. Questi momenti fanno anche da contraltare ai tormenti interiori del protagonista (nell’ultima combattuta partita del film, quella contro la squadra di Knight, presumibilmente non assemblata seguendo la strada dell’inganno, grazie al montaggio alternato vediamo Bell sempre meno allenatore e sempre più sfiancato spettatore di uno sport – e di un mondo tutto – che non riconosce più).
Tuttavia, il film fatica a raggiungere quel senso di necessità che si richiede sempre e comunque a un autore come Friedkin. Gli spettatori medi e/o amanti della palla a spicchi rimangono soddisfatti nel vedere come alla fine lo sport – quello con la s maiuscola – sia salvo (Bell allena con passione un gruppo di ragazzini di periferia nella sequenza finale) e nel leggere nei credits le conseguenze della vicenda per ognuno dei protagonisti, fornendo quel tocco di veridicità, e quindi di appagamento, allo spettatore. Non possono essere di questo avviso i fan del regista, come chi scrive, ai quali non resta da far altro che accomodarsi in poltrona e godere dello spettacolo offerto dalla parabola, discendente e purtroppo prevedibile, della palla verso canestro.

voto_3

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.