Il fallimento di un autore.
Come si sono evoluti gli autori affermatisi col genere horror il decennio scorso? Alcuni hanno continuato l’esplorazione delle proprie tematiche, solo con budget più alti (Jordan Peele, Robert Eggers), altri, tolta l’impalcatura del genere in senso stretto, hanno sfruttato la possibilità di una produzione costosa per battere nuove strade (David Robert Mitchell con Under the Silver Lake e Ari Aster), a nostro giudizio fallendo. Anche a livello di incassi e consenso: se da un lato è inevitabile che un film ambizioso divida gli spettatori, dall’altro Mitchell sembra scomparso dai radar e Aster pare abbia in cantiere un western dalle atmosfere noir. Se Peele continua la rivisitazione dei topoi dell’horror attribuendovi metafore sociali ed Eggers rilegge filologicamente episodi storici per portare a galla conflitti secolari, Mitchell cerca di fare un cinema adulto parlando del disagio di essere adolescente e Aster tenta l’esplorazione della psiche maschile nel contatto traumatico con l’altro da sé (l’universo femminile), avendo trovato finora nell’horror una chiave di lettura che gli permette di esplorare gli ambiti più reconditi di questa ferita e proponendosi così (sia come stile che come declinazione di tematiche) come aggiornamento di certe suggestioni polanskiane. I primi due perseverano in un campo che maneggiano molto bene, gli ultimi due invece falliscono nell’ambizione di allargare il campo, svelando involontariamente il poco che si nasconde dietro la volontà di dire troppo.
Beau ha paura non è altro che una commedia su un Dio contemporaneo. La sua interazione con un mondo creato e costantemente modificato dalla sua mente, per poi venirne auto-distrutto, è qualcosa che avevamo già visto (e meglio) in alcuni capolavori degli anni ‘90 (Barton Fink, Il pasto nudo), qui è però aggiornato alla visionarietà e alle narrazioni contorte di un Charlie Kaufman. Tutto questo almeno nei rimandi e nelle intenzioni dentro un racconto diviso in quattro episodi in maniera piuttosto schematica. Considerato un budget cinque volte superiore a quelli di Hereditary e di Midsommar, di quelli ritorna sia la figura femminile castratrice (qui la madre di Beau) sia, al livello tecnico, l’uso dello zoom lento per creare l’attesa e la tensione fondamentali per le esplosioni di follia. Il progetto di Aster era già nato ambizioso, dato che nelle intenzioni dell’autore doveva essere una black comedy di 4 ore: e non è un caso che, toccando troppi generi con un impianto produttivo simile e gettandosi in maniera suicida (prematuramente) dopo due film che al genere erano troppo ancorati, il film sia stato un flop totale ai botteghini, e a più di un critico abbia fatto venire in mente il recentemente rivalutato Southland Tales di Richard Kelly. L’insieme di tutti questi fattori sembra avviare Beau a diventare più un cult maledetto che un capolavoro pronto all’inserimento in un qualche canone di storia del cinema.
Per essere il grande film che Aster pensa di aver girato, il suo terzo lungometraggio ha troppe cose che non funzionano. La prima parte, più che essere un aggiornamento dell’albergo-mente di Barton Fink, è una variazione comica in chiave redneck della Gotham City apocalittica di Joker (e non è solo per la presenza di Joaquin Phoenix, bravo ma piuttosto anonimo in questo film). Certo, si potrebbe dire che la mediocrità della messa in scena (certe trovate della prima parte o il confusionario meta-teatro della seconda) è specchio di quella del protagonista, ma Aster non fa nulla per distanziarsene e non è ben chiaro dove dovrebbe situarsi il nostro piacere della visione se assistiamo a un costante slittamento di generi fatto di trovatine epidermiche e puerili atte a meravigliare lo spettatore. Non a caso, dell’operazione vengono fuori tutti i difetti nella terza parte: i limiti di un complesso edipico trattato con nozioni da Reader’s Digest; i limiti di Patti LuPone, la cui recitazione è troppo caricata per comunicarci autentico disagio; i limiti di un umorismo che si vorrebbe visionario, ma è più vicino a certe brutte commedie dei Farrelly (i testicoli enormi oppure la donna pietrificata durante l’orgasmo: cosa dovrebbe significare?). Per non parlare del finale processuale, che è davvero estenuante e insostenibile dopo due ore e mezza.
La fiducia in un immaginario simile, che non dice nulla di nuovo, sancisce il completo fallimento dell’operazione-Beau, mettendo in scena a briglia sciolta qualcosa che meritava un approfondimento più articolato: soprattutto se i conflitti col padre si risolvono nella patetica metafora di un fallocentrismo del quale non sappiamo cosa farci. Continuiamo a sperare in un prossimo film, ma è l’ennesima dimostrazione che negli Stati Uniti spesso gli autori che hanno davvero qualcosa di nuovo da dire lavorano ai margini. E lì rimarranno.
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