Tra realtà e visione ossessiva.
Turbolento, enfatico, spettacolare, furbissimo; ma anche in bilico instabile tra satira e volgarità, sempre e comunque attratto dalle situazioni borderline che riesce a restituire in film iper patinati.
Paul Verhoeven, ad 84 anni suonati, non ha nessuna intenzione di rinunciare ad esplorare nuove strade espressive tenendo però sempre ben ferma la sua estetica: e dopo ben due anni di oblio, arriva in Italia il suo Benedetta, la vicenda della suora cattolica mistica italiana vissuta nella Controriforma e accusata di omosessualità ed eresia.
L’origine è il libro Atti Impuri: vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento, un saggio storico di Judith Brown che è un piccolo gioiello di ricerca storiografica e così rigoroso che, nonostante parta da documenti inediti d’archivio, riesce a rimettere in discussione tutto quello che si sapeva sulla storia delle donne, della religiosità e della sessualità. Un testo che sembra fatto per finire direttamente nelle grinfie del regista di Basic Instinct, che parte da una ricognizione documentaristica e arriva a studiare i confini tra la santità in contatto soprannaturale e il rapporto lesbico carnale.
Benedetta è un film limpido nella messa in scena, che spinge sul digitale e non si impelaga in virtuosismi registici: eppure nella linearità del suo racconto sa esplorare la frattura improvvisa, lo scarto che si apre tra il miracolo e la fede con l’inganno. Questo grazie all’occhio attento del regista, che sa posare il suo sguardo su oggetti, paesaggi e persone stravolgendo con perizia l’iconografia e la latitudine geografica ma mantenendo inalterato l’afflato epico che avvolge le protagoniste femminili dell’universo filmico di Verhoeven. Donne forti, rivestite quasi da una corazza d’acciaio – delle robocop biologiche declinate al femminile – che affrontano il percorso che dal Paradiso conduce all’Inferno, attraverso visioni violente e improvvise e ricognizioni vertiginose e potentissime sulla mutazione del corpo. Tutto sovrastato, ovviamente, dal binomio sesso/religione, un confronto/scontro che è sempre presente nella filmografia dell’autore. Tematiche non semplici che di semplice hanno solo la messa in scena: cristallina solo in apparenza, ovviamente, finchè il sottotesto inizia a disseminare dubbi sulle immagini. Quello che vediamo, quello che il film propone, lo sguardo attraverso cui osserviamo Benedetta, è la realtà o una visione ossessiva?
La religione, da Spetters (1980) ad Atto di Forza, passando per Showgirls e arrivando fino oggi a Benedetta, è sempre stata letta come strumento di esercizio di potere e come insieme di costrutti mentali e credenze con un impatto devastante sulla psicologia delle masse. In questo senso, la suora al centro del film è una mise en abyme cinefila che travasa l’essenza di Verhoeven nella protagonista, che diventa sorella di Catherine Tramell e cugina di Nomi Malone (da Showgirls). Il misticismo, l’afflato spirituale cammina qua mano nella mano con l’istinto carnale, e il sesso insieme alla sua pratica si impone come mezzo di affermazione individuale e contemporaneamente, conseguentemente, di ribellione.
Diventa metafora anche il sottile velo che separa il kitsch e l’allegoria, anche questo un dittico teorico che impregna i film del regista: perché in questo modo, il racconto va avanti senza fermarsi tra miracoli veri e falsi, tra profeti reali e prodigi mistificanti.
Benedetta è per questo un’opera straordinaria nel suo essere caustica e serissima, profonda e splendente, strabordante e illuminante: mai pacificata, sempre in fuga dalla resa davanti la realtà, sempre pronta a cambiare pelle e luce.
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