Sbatti il mostro in cantina. Un divertimento “usa e getta”.
Big Bad Wolves in prima battuta riporta alla mente una pellicola recente come Prisoners di Denis Villeneuve, ma in salsa black comedy. E inoltre, volendo fare un gran salto indietro, classici come M – Il mostro di Düsseldorf di Lang e il fiabesco noir di Charles Laughton, La morte corre sul fiume che ritraevano i primi mostri infanticidi, i primi “lupi” della storia del cinema.
Big Bad Wolves è di fatto il tipico “Midnight Cult”, un film concepito per assurgere allo status di film di culto, in certi ambienti perlomeno. Sul piatto abbiamo un pedofilo omicida che semina vittime, un insegnante come principale sospettato, il padre di una delle bambine stuprate e trucidate deciso a farsi giustizia da sé, con tanto di scantinato acquistato per l’occasione per torturare il presunto pederasta assassino (un omuncolo dal classico aspetto mostruosamente banale), e un poliziotto ossessionato dal caso, ma anch’egli convinto della colpevolezza dell’uomo; e in sottofondo a tutto temi come l’ambiguità della colpa, l’impossibilità di appurare la verità e l’insopprimibile istinto omicida insito nell’uomo.
La coppia di autori israeliani, Aharon Keshales e Navot Papushado, allestisce un sontuoso giochino che ha dalla sua una tensione costante, capace di pompare dall’inizio alla fine. Ma che altro?
Big Bad Wolves è un film che riesce indubbiamente nel suo intento, lucido e “lurido”, che sa di sangue rappreso, e che non si inceppa praticamente mai, dal ritmo sostenuto e che oltretutto riesce perfettamente a riempire il tempo. Ciò che convince meno sono semmai le tonalità da commedia nera che caratterizzano la pellicola, a iniziare dagli echi pseudo tarantiniani (non a caso il film è stato incensato dal buon Quentin): si pensi al mix di efferatezze e intermezzi di humor nero, quasi comici, che si impongono di tanto in tanto nel flusso narrativo in maniera francamente un po’ forzata. Momenti grotteschi atti a smorzare la tensione sul più bello, che però sanno troppo di siparietto messo lì per accattivarsi la simpatia di non si sa bene chi.
La cosa più stonata, che lascia davvero interdetti, è l’allusiva, quasi surreale, cornice israelo-palestinese: l’unica figura incontaminata dal brutale furore omicida in questo microcosmo di lupi assetati di sangue e vendetta è un palestinese che si aggira a cavallo attorno alla casa teatro delle torture. Una figura fantasmatica, quasi pacificatoria, all’insegna del politically correct, quella del “cowboy palestinese” (l’arabo buono tra gli ebrei figli di puttana), che davvero stride con tutto il resto.
Ma restando sul piano del puro entertaining, Big Bad Wolves è un film “che funziona”, volendo servirsi di questa un tantino abusata espressione; è una di quelle pellicole che definire “usa e getta” non sarebbe neppure sbagliato, giacché una volta terminata la visione non rimane granché. La sensazione è quella di aver fatto un bel giro sulle montagne russe, ma una volta finito e scesa l’adrenalina, non rimane altro che un piacevole ricordo che via via si farà più tenue fino a scomparire del tutto. Non è detto che sia un male.
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